A Firenze nell’estate del 1981 arrivavano fior di campioni come piove grandine durante un temporale estivo. Al puntero Daniel Bertoni, ingaggiato l’anno precedente come primo straniero viola a seguito della riapertura delle frontiere appena decisa, campione del mondo con la nazionale argentina nel 1978, si aggiunsero le colonne del Torino scudettato del 1976 (l’unico che aveva saputo fare corsa alla pari con la Juve di quegli anni) Ciccio Graziani ed Eraldo Pecci, il veterano della Juventus Antonello Cuccureddu, la promessa sampdoriana Pietro Wierchovod (che il presidente Mantovani, un altro che sognava in grande, aveva necessità di piazzare in serie A mentre i blucerchiati ancora lottavano per ritornarci dopo la retrocessione del 1977), le promesse del Monza Daniele Massaro e Paolo Monelli.
Dopo gli anni delle vacche magrissime, quando concludevi la campagna acquisti riuscendo a fatica a strappare il buon Zagano al Lecce o quando ne prendevi tanti, sì, ma dall’Ascoli e dal Cesena e per poco non finivi in B al posto loro, il calciomercato del 1981, orchestrato da un Tito Corsi a cui i Pontello avevano dato carta bianca e cordoni della borsa spalancati, dette più di ogni altra cosa la sensazione che a Firenze era cambiato tutto, ed era tornato il tempo di sognare.
Ma soprattutto, guadagnò a furor di popolo e di addetti ai lavori alla Fiorentina il pronostico di favorita per lo scudetto. Perfino Gianni Brera, grandissimo giornalista che non aveva mai stravisto per il colore viola, dette come risultato della sua cartomanzia estiva applicata al campionato il risultato che rimbalzò a Firenze come l’eco di una bomba: Fiorentina favorita come campione d’Italia. Se lo diceva perfino la Gazzetta dello Sport, era davvero il momento buono.
In televisione, il Conte Pontello rimbalzava da una Telelibera all’altra ribadendo il proclama di guerra che tutti gli sportivi fiorentini volevano sentire da lui: «Entro due anni spazzerò via i meccanici di Torino, metterò fine al dominio della Juventus in Italia». Se qualcuno aveva da obbiettare, nei vari Chioschi degli Sportivi fiorentini in cui le discussioni di quell’estate sembravano volare sulle ali del sogno più sfrenato, era perché due anni sembravano un tempo troppo lungo. Con il nostro squadrone, l’anno buono era quello seguente. Era adesso o mai più.
In panchina, a gestire quella banda di campioni assemblata per dare la caccia al terzo scudetto, era stato confermato il vecchio capitano del secondo, nel frattempo diventato il più giovane allenatore della serie A, il nostro beneamato Picchio De Sisti. Il quale, attingendo al proprio carattere mite e riservato, avrebbe anche preferito smorzare certi toni, sapendo quanto è lunga e impervia la strada che porta a cucirsi il tricolore sulla maglietta. Ma cercare di tenere i piedi per terra a Firenze in quel momento era una battaglia persa.
I fiorentini si riversarono in massa più di sempre a seguire le imprese dei loro beniamini. Uno stadio che adesso secondo l’UEFA è omologato per ospitare 30-35.000 tifosi a sedere, a quell’epoca ne ospitava circa il doppio, in piedi su una gamba sola, a non veder niente, nemmeno a respirare. Ma bastava esserci. Perché di nuovo a Firenze si faceva la storia del calcio.
Abbandonata ogni scaramanzia, anche la cabala sembrava tingersi di viola. Il 1981-82 cadeva esattamente tredici anni esatti dopo l’ultimo scudetto, tanti quanti ne erano passati tra il ’56 e il ’69. Il pronostico diceva Fiorentina, il gioco – a quanto si vide dalle prime uscite – anche. La fortuna e gli arbitri un po’ meno.
La fortuna voltò le spalle ai viola a metà del girone di andata, Di cosa accadde il 22 novembre 1981 in occasione di Fiorentina – Genoa raccontiamo a parte, e del resto nessuno di coloro che c’erano potrà mai dimenticarlo. il tragico scontro di Giancarlo Antognoni con il ginocchio volante del portiere Silvano Martina sembrò incrinare le speranze e le certezze dei tifosi viola, e per qualche ora compromettere addiritura la stessa sopravvivenza del Capitano. Ma la squadra assorbì il colpo e con la maglia numero 10 temporaneamente affidata ad un incredibile Luciano Miani, riprese a volare.
La Fiorentina fece partita uguale con la Juve a Torino, prendendo consapevolezza di sé ed arrivando al titolo d’inverno con un leggero vantaggio sui bianconeri, che avrebbe potuto essere anche maggiore se non ci fosse stata la farsa della partita con l’Ascoli sospesa (con i viola in vantaggio) perché pioveva troppo, o altre decisioni discutibili (mai troppo eclatanti, ma ben disseminate tra le varie partite) che gli arbitri adottarono contro i viola.
Alla Fiorentina non riuscì di andare via in fuga. Al match di ritorno contro la Juve a Firenze, ormai era un testa a testa alla pari. Finì zero a zero, e la parità perdurò fino all’ultima giornata. Nel frattempo, bruciando le tappe della convalescenza, era rientrato in squadra Antognoni, ed il gol che segnò a Napoli dando la vittoria alla Fiorentina alla terzultima giornata sembrò ancora un segno del destino alla fine benevolo. I viola erano stati più forti di tutto e di tutti. La ricompensa non avrebbe potuto mancare.
16 maggio 1982. Ultima giornata di campionato. Una giornata che nessuno dimenticherà finché campa. I viola andavamo a Cagliari, i bianconeri a Catanzaro. La torcida viola si riversò in Sardegna orgogliosa della sua squadra, sicura che almeno lo spareggio nessuno poteva ormai negarglielo. Il Cagliari doveva salvarsi, la Fiorentina scese in campo forse un po’ contratta, sentendo il momento storico ed il peso di quanto la attendeva. Forse ci fu un po’ di ingenuità nel sottovalutare quanto la Juve desiderava attaccarsi sulla maglia la seconda stella. E quanto la Federcalcio, per parte sua, vedeva di mal’occhio l’eventuale spareggio a causa degli imminenti Mondiali di Spagna.
All’inizio della ripresa l’arbitro Mattei di Macerata annullò ad un attonito Ciccio Graziani, con la spiegazione poco plausibile di un fallo commesso da Bertoni sul portiere cagliaritano, la rete che poteva consegnare lo scudetto a Firenze. Sul fronte opposto, a Catanzaro, al 30′ del secondo tempo l’arbitro Pieri di Genova concesse alla Juventus un rigore di quelli che si possono dare o non dare, che permise ai bianconeri di andare avanti di un punto.
Al fischio finale, Firenze si ritrovò dapprima piegata in due da un dolore insopportabile. Poi, come un sol uomo, reagì lanciando il grido che da allora risuona da queste parti ogni volta che si parla della odiata Juventus: Meglio secondi che ladri!
Odiata, sì. Era finita un epoca storica e ne era appena cominciata un’altra. Per la Juventus a Firenze era finita la stagione dell’antipatia. Era cominciata quella dell’odio mortale.
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