Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 15. Esce Antonio, entra Codino

«Essere, o non essere, questo è il problema: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. …..»

Non sappiamo se i Pontello fossero appassionati di teatro, e se sì, in particolare, del celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare. Ma sembra scritto per loro. Dopo aver dato ripetuti assalti al potere ed alla gloria nel campionato italiano di calcio, la famiglia degli imprenditori che aveva fatto sognare Firenze dopo gli anni bui sembrava una famiglia di sconfitti. Lungi dallo spazzare via i meccanici di Torino, la Juventus, erano stati questi ultimi a beffarli e a spazzare via loro, o così almeno sembrava.

I sogni erano morti all’ultima alba, quella in cui Firenze si era svegliata con un capitano che lottava per ritornare quello che era (e sembrava farcela sempre meno), un allenatore costretto alle dimissioni dalle maniere forti di una tifoseria che non si rassegnava a perderlo (il capitano), una proprietà che per la prima volta era stata contestata apertamente e pesantemente allo stadio e fuori.

Pier Cesare Baretti

La luna di miele tra Firenze e la famiglia Pontello sembrava finita. Quell’anno il giovane rampollo Ranieri pensò bene di lasciare la presidenza del club ad un manager, Pier Cesare Baretti, giornalista in precedenza direttore di Tuttosport, il quotidiano sportivo di Torino, e poi successivamente dirigente di Lega. Qualcuno storse la bocca perplesso, ma l’uomo era capace e irreprensibile e si conquistò presto il rispetto della piazza malgrado la sua provenienza.

Nel 1986 l’A.C. Fiorentina era oggettivamente una società in ripiego. I suoi migliori giocatori facevano i bagagli diretti verso destinazioni per loro più promettenti (le due sponde milanesi), oppure lottavano contro i postumi di infortuni più o meno gravi. Da tempo la parte più superstiziosa e scaramantica del tifo sospettava che sulla Fiorentina pendesse una qualche maledizione. Alcuni davano la colpa allo stesso colore viola, notoriamente malaugurante per chi crede alle jatture. Altri invece rivangavano vecchie storie, come quella che nel 1978 aveva ascritto la colpa di una annata terribile e conclusasi bene solo per il rotto della cuffia al malocchio gettato dal famigerato Mago di Prato. O cose del genere.

Certo era che la buona sorte guardava un po’ dappertutto, meno che verso Firenze. Se doveva andare da nord a sud prendeva l’Adriatica evitando l’Autosole, pur di non passare dalle nostre parti. Il 1986-87 fu l’apoteosi di questo destino avverso. La Fiorentina aveva due fuoriclasse in squadra, Antognoni e Baggio, il vecchio ed il nuovo numero 10, il ragazzo che non era più ragazzo ma voleva disperatamente restare aggrappato alle stelle e quello che scalpitava non vedendo l’ora di cominciare a guardarle anche lui.

Nel 1974 Picchio De Sisti era stato ceduto alla Roma, lasciando soli il giovane Antognoni ed un pubblico che non avrebbe mai saputo cosa avrebbe significato avere due fuoriclasse del genere insieme a centrocampo. Nell’86 sarebbe stato di nuovo possibile, con Antonio nel ruolo che era stato di Picchio e il ragazzo con il codino in quello che era stato suo. Ma il destino decise altrimenti, quando Baggio ebbe il suo secondo infortunio grave al ginocchio la settimana dopo il suo esordio in viola (dopo la lunga convalescenza seguita al primo).

Poco male, avresti detto, c’è sempre Antonio. Macché, anche lui annaspava ricercando la condizione che aveva avuto quella maledetta domenica dell’84, quando Pellegrini ne aveva fermato la corsa sfrenata verso la vittoria e la gloria. Ma quella condizione non tornava, anzi Antonio si fece nuovamente male già nello sfortunato primo turno di Coppa Italia e si ritrovò nuovamente a languire in panchina guardando giocare il povero Onorati che non aveva altra colpa che di essere capitato a Firenze nel momento peggiore.

A gestire questa situazione i Pontello avevano chiamato Eugenio Bersellini, allenatore che aveva vinto uno scudetto con l’Inter pochi anni prima, gran lavoratore, aziendalista serio e infaticabile anche se secondo qualcuno dalle vedute un po’ schematiche. Il sergente di ferro sembrava l’uomo giusto per ricompattare i ranghi di uno spogliatoio impoverito tecnicamente e devastato psicologicamente. Il fatto era che, malgrado l’arrivo di un campione come il Ramon Diaz che aveva appena vinto il Mondiale insieme a Maradona ed il ritorno di un veterano viola come Roberto Galbiati, c’era rimasto ben poco da ricompattare.

Eugenio Bersellini

Bersellini mantenne la politica di Agroppi senza gli eccessi di Agroppi. Antonio vide sempre più spesso le partite della sua Fiorentina sedendogli accanto in panchina. 19 presenze l’anno prima, 19 presenze anche quell’anno. Anche il sergente pensava di avere ormai in squadra qualcuno più utile dell’Unico 10, solo che almeno non lo disse ad alta voce. E l’ambiente era troppo demoralizzato ormai per rinfocolare la dolorosissima polemica.

Firenze che perdeva la sua luce senza sapere se almeno se ne sarebbe accesa un’altra si ritrovò di fronte una stagione che poteva benissimo virare verso un nuovo dramma. La Fiorentina fu spesso in zona retrocessione quell’anno, subì alcune sconfitte cocenti come quella casalinga contro l’Inter determinata dal gol di un dolorosissimo ex, Daniel Passarella.

La Coppa Italia era sfumata già al primo turno, per mano di Empoli, Como e Salernitana (allora si giocava il primo turno in gironi all’italiana). La Coppa UEFA la cui qualificazione era stata conquistata l’anno prima da Agroppi tra mille polemiche sfumò parimenti al primo turno, per mano del Boavista ai calci di rigore.

Unica soddisfazione, la vittoria casalinga per 3-1 contro il Napoli di Diego Armando Maradona che aveva cominciato la cavalcata vincente verso il suo primo scudetto. I viola inflissero ai futuri campioni una delle tre sconfitte da loro subite in tutta la stagione. Nella circostanza, Antognoni segnò uno dei suoi ultimi gol su punizione in maglia viola.

La circostanza è singolare, perché nel match di ritorno a Napoli, nel giorno in cui i partenopei festeggiavano quello scudetto centrato al primo colpo in faccia ad una squadra che ci aveva provato per anni andandoci vicina solo una volta, la Fiorentina segnò, ancora su punizione, il gol del pareggio finale per 1-1. Ma il piede stavolta era quello di Roberto Baggio, rientrato da poco dal secondo infortunio.

Il passaggio di consegne era avvenuto in panchina. Mentre i napoletani festeggiavano, i fiorentini con la morte nel cuore assistevano al giocatore più amato di sempre che faceva le valigie per andare a concludere la carriera in Svizzera, a Losanna. Alla corte dei Pontello per lui non c’era più posto, lo sapevano tutti e tutti videro morire una parte di sé in quei momenti.

Si chiudeva molto più di un’epoca. Si spegneva una parte importante dell’anima di Firenze. Il ragazzo che aveva detto no alle offerte della Juventus legandosi per sempre al colore viola era diventato un tutt’uno con la città che l’aveva adottato, a partire da quel lontano giorno del 1972 in cui tutti i cronisti l’avevano salutato come il nuovo Rivera. Firenze aveva avuto diversi numeri 10 di cui innamorarsi. Per il suo fu coniato l’aggettivo Unico, e ancor oggi molti si chiedono come mai quella maglia non fu ritirata definitivamente il giorno che Antonio se la tolse per l’ultima volta, il 17 maggio 1987 allo Stadio Comunale, Fiorentina Atalanta 1-0.

Al 90° di quella partita, Bersellini – in partenza anche lui – aveva rimesso dentro più che altro per farlo partecipare ai saluti finali del pubblico, quel ragazzino dai capelli ricci legati in un codino. A cui Firenze, pur con la morte nel cuore, si ritrovò improvvisamente e disperatamente aggrappata.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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