Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 16. La B&B

Quante volte la Fiorentina aveva dovuto voltare pagine amare, quante volte quella successiva sarebbe stata, doveva essere, la stagione della ricostruzione? Quante volte i suoi tifosi avevano sperato che il peggio fosse passato, che la sfortuna si fosse finalmente saziata e si decidesse a recarsi da un’altra parte?

Nell’estate del 1987 i tifosi dalle sciarpe viola si mettevano in coda al botteghino con la testa al campionato che stava per iniziare ed il cuore per una volta altrove. Evitando di volgere lo sguardo a nord-ovest, verso quel lago lontano della Svizzera in riva al quale sapevano che colui che era stato il loro vanto e gloria per così tanti anni avrebbe regalato le sue ultime impareggiabili giocate ad un pubblico straniero. E chissà se almeno era capace di apprezzarle come meritavano.

Giancarlo Antognoni era ormai a Losanna, esiliato come Dante Alighieri dalla sorte che non perdona nemmeno i più grandi, facendoli invecchiare senza pietà come i comuni mortali. Senza di lui, la Fiorentina sembrava dover precipitare indietro ad anni che si era creduto di poter dimenticare. I Pontello attraversavano una fase involutiva della loro gestione societaria. Finita l’epoca dei grandi acquisti, si puntava su autofinanziamento e giovani secondo un modello che sarebbe stato ripreso anche in seguito da altre proprietà. Di fatto, a veder giocare la nuova squadra, sembrava di essere tornati agli anni Settanta, e che i proprietari stessero riportando la Fiorentina esattamente là dove l’avevano trovata.

Per questo, Firenze si ritrovò aggrappata alle fragili ginocchia dell’unico che poteva riallacciare la Fiorentina all’ENEL, raccogliendo l’eredità più difficile che ci fosse. Roberto Baggio era l’unico che potesse mettersi sulla schiena quella maglia numero 10 che non era stata ritirata nel maggio precedente, e che Firenze aveva un gran bisogno di vedere almeno indossata con onore e talento, ora che altre soddisfazioni tornavano ad esserle negate.

Pier Cesare Baretti, il presidente incaricato, faceva del suo meglio per mettere attorno al Codino giovani di belle speranze. Ma erano speranze relative, come quel Glenn Hysen, uno svedese così latino da meritarsi ben presto il soprannome di Attanasio cavallo vanesio (che si rifaceva beffardamente ad una vecchia commedia di Renato Rascel avente per protagonista un equino dalla corsa non proprio velocissima). O come quello Stefano Rebonato che sarebbe rimasto nell’immaginario dei tifosi come simbolo degli acquisti di cui solo il direttore sportivo capisce l’utilità, finendo per sostituire il manzoniano Carneade nella celebre frase: chi era costui?

Sven Goran Eriksson con Glen Hysen

A gestire la problematica rifondazione, Baretti aveva chiamato un allenatore che come il Carlo Mazzone di un decennio prima sembrava l’uomo del momento, la panchina più promettente. Sven Goran Eriksson era svedese come Nils Liedholm, altrettanto sornione e flemmatico ed altrettanto non condizionato dai risultati. Come Liedholm, era uno che faceva giocare i giocatori spesso al meglio, cavando come si suol dire il sangue anche dalle rape. Veniva da un campionato incredibile con la Roma, che aveva concluso una formidabile rimonta nei confronti della Juventus compromettendo il tutto all’ultima giornata con un 2-3 casalingo contro il Lecce ultimo in classifica. In quanto a fama di vincente, destava più di una perplessità, proprio come Liedholm. Ma tanto per la Fiorentina almeno quell’anno il problema di vincere non si poneva.

La curiosità dei tifosi a proposito del nuovo corso viola fu subito soddisfatta da un risultato clamoroso. Alla seconda giornata una Fiorentina che all’esordio casalingo non era andata oltre lo 0-0 contro il forte Verona ex campione d’Italia, andò a rendere visita a san Siro al Milan che Berlusconi aveva già allestito come una corrazzata di campioni, e che a fine di quella stagione si sarebbe laureato campione a tutti gli effetti rimontando il Napoli di Maradona lanciato verso un clamoroso bis. Per i viola non sembrava esserci scampo, e invece segnò Ramon Diaz a sorpresa e raddoppiò in contropiede Roberto Baggio con un gol in serpentina di quelli a cui avrebbe abituato le platee di tutto il mondo e con il quale mise a sedere il portiere milanista Giovanni Galli, nostro rimpianto ex.

I tifosi smisero di guardare verso nord-ovest, verso quel lago svizzero maledetto, e focalizzarono l’attenzione verso le prodezze di questo ragazzino della provincia veneta che non stava tradendo le attese, e le cui ginocchia sembravano finalmente reggere. La Fiorentina alternava risultati discreti a batoste, ma la gente aveva ripreso a giustificare la propria presenza allo stadio con le giocate di un solo giocatore che ripagavano di tante amarezze, come ai vecchi tempi di Antonio. Codino stava prendendo in mano la Fiorentina, e quando la sfortuna colpì nuovamente lo fece altrove, dimenticandosi dei suoi legamenti martoriati.

Pier Cesare Baretti aveva l’hobby del volo, e appena poteva saliva sul suo Cessna 172 e decollava dalle sue piste di casa, diretto un po’ ovunque. La mattina del 5 dicembre 1987 la sua corsa fu breve, sul costone di Montagnassa, nei pressi di Pinerolo, c’era nebbia fitta, e il presidente della Fiorentina andò incontro alla sua Superga personale.

Renzo Righetti, nuovo presidente viola

Il viola si listava nuovamente a lutto. La malasorte aveva fatto sapere che teneva sempre un occhio vigile su Firenze. I Pontello incaricarono di succedere allo sfortunato giornalista aviatore un altro piemontese, Renzo Righetti, ex arbitro poi designatore di arbitri e dirigente della FIGC. Altra persona degnissima e capace, anche se su quella predilezione dei proprietari viola per personaggi provenienti da quel Piemonte con cui Firenze non riusciva proprio a fare razza, per così dire, qualcuno cominciava ad interrogarsi con curiosità.

La Fiorentina di Eriksson concluse la stagione all’ottavo posto, finendo però con il botto. Alla penultima giornata inflisse un 3-2 al Napoli che l’aveva eliminata dalla Coppa Italia e che era in corsa con il Milan per lo scudetto. Una sconfitta decisiva per i partenopei che rimasero indietro di tre punti alla fine rispetto al Milan di Arrigo Sacchi.

E soprattutto, all’ultima giornata, il botto più forte e più sentito dai suoi tifosi: nuova magia di Baggio e vittoria per 2-1 a Torino in casa della Juventus. Niente male per una squadra che aveva stentato con tutte meno che con le grandi, raccogliendone diversi scalpi. Nessuno si immaginava che sarebbe rimasto l’ultimo successo a Torino dei viola per ben vent’anni successivi.

Di nuovo estate, di nuovo calciomercato, di nuovo a cercare di capire cosa avrebbero inteso fare i Pontello, cosa avrebbe saputo fare questo Righetti. L’autofinanziamento sembrò funzionare, nella misura in cui per un Nicola Berti ed un Ramon Diaz che salutavano Firenze e si accasavano all’Inter, arrivavano un Carlos Dunga ed uno Stefano Borgonovo che si sarebbero dimostrati giocatori di valore assoluto. Il primo avrebbe rinverdito i fasti nientemeno che di Daniel Alberto Passarella, sistemandosi al centro della difesa ad intimorire avversari e compagni come aveva fatto il fuoriclasse argentino. Il secondo avrebbe costituito con Baggio la celeberrima B&B, la premiata ditta del gol che ne avrebbe segnati non moltissimi, ma quelli giusti. A concludere la carriera a Firenze arrivò anche il vecchio nemico Roberto Pruzzo, un altro che avrebbe segnato poco, ma al momento giusto.

Avrebbe messo in fila un’altra stagione di risultati altalenanti, la Fiorentina di B&B. Ma ce ne furono due che valsero l’intera stagione. Alla fine del girone d’andata era arrivata a Firenze l’Inter che si apprestava a volare verso lo scudetto. Dopo una serie di rovesciamenti di fronte, i nerazzurri ad un quarto d’ora dalla fine vincevano 3-2. Poi Stefano Borgonovo aveva deciso di entrare nella storia viola e nel cuore dei tifosi segnando i due gol di un 4-3 finale che è rimasto negli annali.

Al secondo posto, però. Perché al primo c’è rimasta un’altra partita, sempre di quell’anno, giocata un mese prima, il 15 gennaio 1989. Avversaria, manco a dirlo, la Vecchia Signora, scesa a Firenze a mostrare che la sconfitta casalinga dell’anno precedente era stata un infortunio casuale e che loro, i bianconeri, stavano aprendo un nuovo ciclo. Sarebbe rimasta nella storia come la partita della leggenda. La partita perfetta.

Rui Barros portò in vantaggio la Juve nel primo tempo, la partita si era fatta in salita per i Viola. Verso la fine del primo tempo Baggio su rigore era riuscito a pareggiare. La ripresa sembrava avviata verso l’ennesimo insignificante pareggio, nessuna delle due squadre sembrava in grado di superare l’altra. Al 90′, Roberto Baggio andò a battere un calcio d’angolo che sembrava proprio l’ultima azione prima del triplice fischio finale dell’arbitro. Sullo spiovente deviò Battistini, entrò di testa Borgonovo e gol.

Cosa successe dopo, chi era allo stadio quel giorno sa che non ci sono parole per descriverlo, chi non c’era non può capire. Forse più di tutto il resto valgono le immortali parole di un leggendario tifoso ormai scomparso: «E’ meglio di una scopata!»

La Fiorentina concluse quel campionato senza troppe infamie e con quella lode, classificandosi al settimo posto a pari merito con la Roma. Per decidere quale delle due avrebbe partecipato alla Coppa UEFA della stagione successiva, fu giocato uno spareggio a Perugia, risolto da un gol dell’ex Roberto Pruzzo a favore dei viola.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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