8 novembre 1993, per la prima volta (e non sarà l’ultima), la Piazza Santa Croce si riempie di tifosi viola venuti all’ultimo saluto ad un loro grande caduto
Serie B. Nel dopoguerra fino al 1993 la Fiorentina ha potuto fregiarsi del titolo di mai retrocessa assieme ad altre due squadre: Juventus e Inter. Un club ristrettissimo. Il 1938, anno in cui Pizziolo & c. erano retrocessi per la prima e unica volta nella storia viola, può essere etichettato come epoca pionieristica. Da allora sono trascorsi 55 anni in cui i pericoli seri si sono presentati sostanzialmente tre volte, nel ‘71, nel ‘78 e nel ‘90. E’ vero che la Fiorentina viene da tre dodicesimi posti consecutivi, come dire: dai, picchia e mena…. E’ vero anche che a leggere la formazione della Fiorentina di quell’anno a paventare all’inizio il rischio retrocessione ci sarebbe stato da essere presi per matti.
E’ vero che si tratta di una disfatta che più che nella logica e nei numeri trae origine dalla psicologia e da ciò che si chiama comunemente destino. Karma. Colpa di un Palazzo a cui il viola è diventato un colore antipatico, colpa di una Roma che si è fatta da parte contro la nostra diretta concorrente Udinese, ma colpa anche e soprattutto di una società che a metà campionato ha scelto il suicidio, esonerando un allenatore che qui ha sempre fatto bene per sostituirlo con un altro che qui ha sempre gestito male le risorse umane. Risorse evidentemente andate in confusione dopo quel Fiorentina-Atalanta di inizio gennaio.
E’ uno dei momenti più bui della storia viola, forse il più buio in assoluto, fino a quel momento. Ma a ben guardare, è anche uno dei più alti nel comportamento dei tifosi. Dopo il fischio finale di Fiorentina – Foggia, uno stravolto, distrutto, avvilito Mario Cecchi Gori va coraggiosamente ad incontrarli, i tifosi, pronto a prendersi le sue responsabilità (che sono più del figlio e dei giocatori, per la verità, ma il comandante se le assume tutte su di sé, correttamente ed onorevolmente).
Viene accolto da un applauso che gli taglia le gambe più di 100.000 fischi. Dice: «…ma io non me li merito….vi ho portati in B…». I tifosi rispondono applaudendo ancora più forte e chiudendogli la bocca. Per quanto duro sia stato il colpo, non c’é spazio per l’autocommiserazione, ma solo per la rivalsa.
Nei giorni successivi, la città prende le distanze dal disastro sportivo, per bocca del suo sindaco Giorgio Morales: «È retrocessa la Fiorentina, non Firenze». Il messaggio è chiaro: ritornate ad essere all’altezza della città che rappresentate. Marione, che era venuto per vincere, non ha bisogno di farselo dire, e già è al lavoro per cancellare questa sconfitta, questa macchia ignominiosa. La squadra, finalmente, lo segue. Tutti vengono confermati, ad eccezione di Brian Laudrup che si è dimostrato troppo fragile, effimero per il nostro calcio, ed ha preferito tentare la carta Milan prima di venirne espulso definitivamente. Gli altri affrontano tutti a viso aperto la discesa in B, dimostrandosi gli uomini che non sempre sono stati nella stagione trascorsa e meritandosi la gratitudine della oltraggiata Firenze.
Batistuta lascia la fascia di capitano a Stefan Effenberg, anche se ormai è chiaro che il vero leader di questa squadra è lui. Al fianco suo e di Ciccio Baiano, vengono lanciati dei giovani promettenti, come il portiere Francesco Toldo, e gli attaccanti Anselmo Robbiati detto Spadino e Francesco Flachi, il ragazzo che gioca bene. Gioca talmente bene che a febbraio dell’anno successivo riporta la Primavera viola in finale al Viareggio, dove incontra però un altro predestinato che gli ruba una scena che ormai sembrava tutta sua. Nella prima partita viola e bianconeri junior fanno 2-2, con la Juve che raggiunge il pari a due minuti dalla fine. Nella ripetizione, è la Fiorentina a rimontare un 2-0 iniziale della Juventus, ma allo scadere del primo supplementare un golden goal (regola allora in vigore) segnato su rigore dall’astro nascente bianconero Alessandro Del Piero gela le speranze viola di togliersi almeno una soddisfazione in quella stagione trascorsa nel limbo, mentre la squadra maggiore è impegnata nell’unico obbiettivo possibile, la pronta risalita in serie A.
Ad allenare la squadra che dovrà mangiarsi il campionato di serie B viene chiamato un giovane tecnico anch’egli molto promettente, Claudio Ranieri. Il mister romano viene da due stagioni controverse a Napoli, dove ha cercato di raccogliere l’eredità di Ottavio Bianchi e soprattutto di Maradona, senza ovviamente poterci riuscire. Ma è capace, ha savoir faire ed è simpatico, il che non guasta. I Cecchi Gori e soprattutto Firenze lo prendono subito a ben volere.
Anche perché la sua Fiorentina comincia fin dalla prima giornata (3-0 a Palermo) una marcia trionfale. Quella viola, zeppa di campioni, è una squadra talmente superiore alla categoria in cui gioca da finire per stravincere quel campionato cadetto. Quell’anno in B si gioca per il secondo posto, la Fiorentina chiude con 50 punti (la vittoria ne paga ancora 2), Batistuta chiude terzo con 16 reti in una classifica cannonieri di predestinati, con Oliver Bierhof, Filippo Inzaghi, Enrico Chiesa e Christian Vieri in lizza. Il danno è rimediato subito, e alla grande. Siamo tornati subito in serie A, pronti a riprendere il discorso da dove lo avevamo interrotto. Pronti alla rivincita.
Pronti anche ad assorbire un nuovo duro colpo della sorte. A far festa alla fine di quel campionato surreale che in qualche modo costituisce il terzo titolo vinto dalla Fiorentina, non c’é più il suo patron.
Il 5 novembre 1993, intorno all’ora di pranzo, Marione è seduto alla sua scrivania nel suo ufficio romano, quando un colpo apoplettico lo fulmina. Il suo cuore ha retto attraverso le mille peripezie di una vita avventurosa, ma forse non lo stress degli ultimi mesi alla guida di una società, quella viola, che nella sua storia non ha mai conosciuto il quieto vivere. Come Mosé, è destinato a riportare il suo popolo fino alla Terra Promessa, la serie A a cui la Fiorentina appartiene. Ma lui non è destinato a rivederla, a rimetterci piede.
Ai funerali del grande presidente viola in Santa Croce, l’ultimo, lunghissimo, interminabile applauso dei tifosi. Firenze una volta di più sceglie di non piegarsi al dolore, agli sberleffi della sorte. Mentre Marione viene sepolto nel cimitero monumentale di San Miniato, come i grandi della storia cittadina, tutt’al più quegli stessi tifosi presenti guardano perplessi a colui che il patron scomparso si lascia dietro. All’erede delle fortune di famiglia, nonché di quelle sportive cittadine.
Accanto alla signora Valeria, la vedova a cui spetta il titolo di presidente onorario, resta il figlio Vittorio, quello che sale sempre sulla balaustra. E che, pur stravolto dal dolore, promette subito la stessa passione del padre, grandi investimenti e un’altra epoca eroica. E nei primi anni della sua gestione sembra addirittura mantenere le promesse, nonostante il suo carattere intemperante e il suo scarso senso della realtà.
Incrociando le dita, Firenze si dispone a sognare nuovamente con Vittorio Cecchi Gori.
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