Mancavano pochi giorni al suo sessantesimo compleanno, settantacinque anni fa quella notte in cui entrò da Duce delle Camice Nere nell’ultima storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo e ne uscì come un presidente del consiglio qualunque, per di più dimissionario.
Luglio era un mese fatidico nella vita di Benito Mussolini. Quando era nato, il 29 luglio 1883 sotto il solleone a Dovia frazione di Predappio, il padre Alessandro, di professione fabbro ferraio e di fede anarchica, gli mise il nome del più leggendario rivoluzionario dell’epoca, quel Benito Juarez che aveva guidato una delle tante rivolte messicane, forse una delle più famose, quella contro Massimiliano d’Asburgo. Senza saperlo, segnò il destino di quel figlio dal carattere irrequieto, irruento, indisciplinato e anche violento. Quando dopo l’assassinio di re Umberto I a Monza da parte dell’anarchico Gaetano Bresci fu eretto un monumento al sovrano nel parco reale in cui aveva trovato la fine, pare che la mano che andò a scrivere sul basamento le parole monumento a Bresci fosse la sua. E aveva solo 17 anni.
Aveva trovato un mestiere poco congeniale alla sua indole ed alle sue idee, il giovane Mussolini. Fare il maestro di scuola gli si addiceva poco. Molto più congeniale fare l’agitatore sovversivo, nelle file di quel partito socialista che stava inesorabilmente abbandonando la via riformista di Filippo Turati ed Anna Kuliscioff per imboccare quella massimalista rivoluzionaria dei Nenni, dei Menotti Serrati e di tutti coloro che dalla Settimana Rossa in poi sperarono di rovesciare il vecchio stato liberale post unitario con la forza.
Fino al 1914, Mussolini compì una irresistibile ascesa a suon di manifestazioni, arresti, articoli e proclami di fuoco. Si, perché nel frattempo aveva scoperto di essere tagliato per un altro mestiere, quello di giornalista. Direttore dell’Avanti!, usò l’organo ufficiale dei socialisti per dare la scalata al partito. Fu fermato proprio alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, che mise in crisi i partiti socialisti di tutta Europa. Quello italiano non fece eccezione. Dovunque, l’Internazionale Socialista cercò di barcamenarsi tentando di non assumere posizioni in conflitto con le fedeltà nazionali, una sorta di né con lo Stato né con i suoi nemici che avrebbe avuto fortuna anche in seguito.
L’unico partito che si mantenne anti-interventista dichiarato fu quello italiano, e fu allora, mentre le potenze straniere cercavano di tirare dentro il conflitto un’Italia all’inizio restia ma con una classe dirigente bramosa di concludere il Risorgimento con Trento e Trieste e di avere il suo posto al sole con le Colonie d’Oltremare, che Mussolini ed il Partito Socialista scoprirono di avere due destini diversi. Espulso dal partito, Mussolini fondò il Popolo d’Italia, giornale dalle cui colonne divenne dapprima la figura di riferimento dell’Interventismo, e poi il leader incontrastato del Fascismo, il movimento di squadristi sorto nel dopoguerra per impedire che l’Italia facesse la fine della Russia, precipitata nel vortice della rivoluzione bolscevica.
La storia dei 20 anni successivi è arcinota, come è noto che il regime che elesse proprio Duce incontrastato l’ex maestro di Predappio ebbe avvio da una marcia di camicie nere ma più ancora da una decisione del Re di impedire al Generale Cittadini di difendere Roma con l’esercito già schierato. Vittorio Emanuele III non era un cuor di leone, non era neanche un intelletto brillante. Vide nella dimostrazione fascista l’occasione di applicare quella norma dello Statuto Albertino del 1848 (la costituzione di allora) che gli dava la prerogativa di incaricare il presidente del consiglio a proprio giudizio insindacabile, pur tenendo conto delle indicazioni delle urne elettorali. Alle ultime elezioni, nel 1921, i fascisti erano stati la forza nuova in ascesa, ed allora il Re ritenne opportuno premiarli con la responsabilità di guidare il paese fuori dalla crisi dello stato liberale, e dalla pericolosa deriva bolscevica.
Fu una decisione costituzionale, quindi. Allo stesso modo il Ventennio così cominciato sarebbe terminato per una decisione che pretendeva di avere gli stessi crismi di legalità e costituzionalità. Nell’estate del 1943, il Duce era un uomo stanco, sull’orlo del tracollo nervoso e della sconfitta personale rispetto a tutto ciò in cui aveva creduto e a cui aveva messo mano. Dopo tre anni di quella guerra a cui – per la seconda volta, ma stavolta con un azzardo ancora maggiore – aveva in tutti i modi voluto che l’Italia partecipasse (nonostante l’impreparazione dimostrata da precedenti avventure come la Guerra di Spagna), Benito Mussolini si ritrovava con l’Impero ormai perduto, il territorio nazionale invaso dagli Alleati (sbarcati in Sicilia dal 10 luglio), le maggiori città italiane bombardate sistematicamente dalle Fortezze Volanti americane e dai Lancaster inglesi, una popolazione che apparentemente lo applaudiva ancora quando si affacciava dal balcone di Palazzo Venezia, ma che in realtà non ne poteva più e detestava la guerra a fianco dei tedeschi.
Per tirare fuori l’Italia da un conflitto che ormai appariva irrimediabilmente perduto a tutti, si stavano mobilitando forze potenti, dal Vaticano agli industriali di maggior spicco alla stessa famiglia reale. La principessa Maria José, moglie dell’erede al trono Umberto e figlia di quel Re del Belgio che era prigioniero dei tedeschi e soffriva insieme ed alla testa del suo popolo, si incontrava con gente come Olivetti, Agnelli, o i loro emissari, con il Cardinale Montini segretario di stato di Papa Pio XII Pacelli. A questi ormai si aggiungevano i maggiorenti del regime, almeno quelli che avevano ancora l’uso della ragione, oltre che il prestigio personale. Non c’era più Italo Balbo, l’unico il cui carisma avrebbe potuto competere con quello di Mussolini e che era caduto in Libia in un misterioso incidente aereo all’inizio della guerra. Ma c’erano persone come Dino Grandi e Galeazzo Ciano che avevano prestigio interno ed internazionale e che capivano ormai che la partita era persa e che occorreva passare la mano.
Ancora una volta, l’uomo del destino era il pavido e poco brillante Vittorio Emanuele III, che sollecitato ad agire tempestivamente oppose l’obbiezione della mancanza di presupposti costituzionali. Toccò a Grandi fornirglieli. Dal 1928 esisteva una specie di Consiglio di Gabinetto del Duce, o piuttosto una sorta di soviet della rivoluzione nera, il Gran Consiglio del Fascismo. Era un organo i cui confini non erano mai andati al di là dell’ambito consultivo, ma in quella situazione non c’era da sottilizzare. Un ordine del giorno votato in quel consesso poteva valere come una sfiducia al Duce, e l’invito al sovrano ad agire per salvare il suo paese.
Mussolini era conscio di questa marea montante, in qualche modo preparato ad affrontarla. Ma quando prima l’invasione alleata, poi l’ultimo incontro con l’alleato Hitler – in cui doveva perorare la causa del disimpegno italiano e che invece si risolse in un monologo del Fuhrer che lo annichilì – gli tolsero le ultime illusioni e le residue energie, acconsentì alla convocazione del Consiglio che aveva sempre rifiutato dopo il 1939.
La notte del 24 luglio, Dino Grandi presentò il suo ordine del giorno in cui chiedeva a Mussolini di restituire al re il comando delle Forze Armate e di rimettergli in sostanza l’incarico. Il Duce parve rassegnato, ascoltò gli interventi di tutti i gerarchi la maggior parte dei quali andavano nella direzione voluta da Grandi, da Ciano a Bottai, ai vecchi quadrumviri De Vecchi e De Bono (gli ante-Marcia), acconsentì a che si votasse pur sapendo in anticipo quale sarebbe stato l’esito, prese atto della sfiducia del Gran Consiglio e dichiarò sciolta la seduta, annunciando che il giorno seguente si sarebbe recato dal sovrano.
Mussolini doveva sapere, o almeno intuire che il suo ventennale incarico di governo era agli sgoccioli, che Vittorio Emanuele aveva avuto il presupposto di cui aveva bisogno e che adesso non poteva più tirarsi indietro, dando soddisfazione a chi gli chiedeva di deporre il Duce. Quello che di certo non si aspettava era di trovare un plotone di carabinieri, che dopo il colloquio con il re da cui apprese di non essere più a capo di niente lo presero in consegna, portandoselo in caserma in stato di arresto.
L’incarico a succedergli andò al maresciallo Badoglio, che istituì il primo di una serie di governi tecnici che avrebbero costellato, o per meglio dire afflitto, la storia d’Italia successiva. Malgrado il proclama immediato: «La guerra continua a fianco dell’alleato germanico», il governo militare prese a trattare l’armistizio con gli angloamericani, che fu poi firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre 1943, ma comunicato al paese ed al mondo cinque giorni dopo, quando il Re e lo stesso Badoglio erano già scappati rifugiandosi nelle mani degli Alleati ed abbandonando l’Italia e gli italiani al loro destino sotto il tallone nazista.
Nel frattempo Mussolini era stato liberato dalla prigione di Campo Imperatore sul Gran Sasso dai paracadutisti SS di Otto Skorzeny e portato in Germania dove Hitler lo avrebbe costretto a fondare la Repubblica fantoccio di Salò. La guerra continuava davvero, ed era una storia tragica che per il nostro paese si sarebbe conclusa il 25 aprile del 1945 con la Liberazione, per Mussolini tre giorni più tardi con la fucilazione da parte dei partigiani del Comandante Valerio a Giulino di Mezzegra, lontano ormai da gloria e potere, e dal caldo sole di luglio.
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