Aveva piovuto per più di dieci giorni, ininterrottamente. Non era una novità, né per Firenze né per la Toscana. Periodicamente i fiumi andavano in piena, e a volte straripavano, per lo più nelle campagne, senza fare danni ma anzi semmai benedicendo la terra che i contadini lavoravano da sempre. Per questo delle alluvioni, come degli altri fenomeni naturali, non ci si preoccupava più di tanto, in un mondo poco avvezzo a lamentarsi, ma semmai piuttosto a rimboccarsi le maniche e a mettersi a lavorare o per riparare i danni prodotti dalla natura o per raccogliere i suoi doni. A volte, con tempi di ritorno a 100 anni o giù di lì, come dicono i tecnici della Protezione Civile ai giorni nostri, il fiume più grande, l’Arno, straripava, o per meglio dire alla fiorentina, dava di fuori anche a Firenze. E allora era uno spettacolo, perché Firenze diventava Venezia.
Nell’autunno del 1966, all’appressarsi di quel 4 novembre che allora era una festa e una ricorrenza felice, perché segnava l’anniversario della fine – vittoriosa – della Prima Guerra Mondiale, piovve tanto, come già in altre annate. Ma nessuno si aspettava che le cose si mettessero al peggio proprio in città. Gli straripamenti a monte e a valle di Firenze e di Pisa, per tutta la piana dell’Arno, erano quasi attesi e dati per scontati. Perfino la piena in città era un evento ricorrente, e spesso i fiorentini si raccoglievano lungo le spallette a guardare il fiume solitamente amico in quel momento ingrossato in maniera impressionante, ma che non faceva mai paura. Dava soltanto un argomento in più di discussione a gente abituata a discutere su tutto. Quell’anno il calcio e la politica non offrivano particolari spunti, perciò la piena dell’Arno veniva quasi a rompere la monotonia.
A Pasqua, la Colombina non si era incendiata e il Carro non era scoppiato, nella tradizionale cerimonia che si teneva ogni anno in Piazza del Duomo. Ciò era ritenuto dai vecchi un presagio infausto, ed era successo in un’altra unica circostanza, nel 1940. Quella volta, gli aveva fatto seguito l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale. Stavolta i più superstiziosi attendevano qualche altra disgrazia, quale che fosse. Ma in un mondo che si stava modernizzando, chi credeva più a queste cose? Chi vide l’Arno la sera del 3 novembre dopo cena ne rimase impressionato. Ma ancora nessuno volle credere né ai presagi né a previsioni più scientifiche. A La Nazione, alla RAi, alla Prefettura si auspicava che la notte passasse senza danni. Le spallette dell’Arno avevano retto a tante piene, ce l’avrebbero fatta anche stavolta.
E invece, nella notte successe qualcosa, il fiume ingrossò ancora, gli ultimi decimetri a raggiungere l’orlo delle spallette furono colmati. Alle 3:30 della notte del 4 novembre, con i fiorentini che si preparavano a vivere il giorno dopo una giornata di festa dal lavoro e dormivano il sonno del giusto nelle loro case, un vigile del fuoco che passava da Ponte Vecchio vide i primi zampilli dell’acqua che si riversava sul Lungarno, oltrepassando le murate. Dette l’allarme immediatamente, ma ormai era troppo tardi. Le fognature di Firenze, che risalivano per la maggior parte ai tempi dei Granduchi di Lorena, non riuscirono a tenere, al pari degli argini.
Alle 4:00 il Lungarno Benvenuto Cellini fu il primo a cedere rovinosamente, e da lì l’acqua in breve tempo sommerse l’Oltrarno. San Niccolò e San Frediano finirono sott’acqua in un attimo. Un’ora dopo la stessa sorte era toccata anche agli altri quartieri centrali della città, mentre si cominciava a temere per la sorte del Ponte Vecchio. Alle 6:00, l’alba sorse su una città che si stava allagando completamente fino alle periferie, Scandicci, Lastra a Signa. Alle 7:00 fu investita la Biblioteca Nazionale e la Chiesa di Santa Croce, da una furia delle acque che non si placava. A quell’ora la nuova sede de La Nazione in Via Paolieri era già fuori uso, e solo la RAI sotto la guida del caporedattore storico Marcello Giannini riuscì a tenere informato il resto del mondo di quanto succedeva a Firenze. Giannini stesso ha raccontato come da Roma non credessero alle sue prime informative. Allora al giornale radio successivo aprì la finestra e calò il microfono all’aperto, commentando: «Ecco, non so se da Roma sentite questo rumore. Bene: quello che state sentendo non è un fiume, ma è via Cerretani, è la via Panzani, è il centro storico di Firenze invaso dalle acque».
Alle 9:00, l’acqua ormai in tutta Firenze arrivava al primo piano delle case, più o meno dove oggi in molte strade della città si possono osservare le apposite targhette commemorative. Il Sindaco Piero Bargellini, assediato a Palazzo Vecchio dall’acqua come i suoi concittadini, diramò a quel punto alle autorità nazionali la richiesta di aiuto (allora non esisteva lo stato di calamità naturale).
L’alluvione di Firenze fu un evento di tale portata emotiva prima ancora che di cronaca da surclassare eventi analoghi (e forse anche più disastrosi in senso stretto) che si verificarono in tutto il resto della Toscana ed anche in altre zone dell’Italia, soprattutto in quel Veneto in cui era ancora viva la memoria della terribile alluvione del Polesine del 1951.
Chi scrive, oltre alla storia imparata dai resoconti appresi successivamente, ha nella memoria – soprattutto negli occhi – le immagini e i ricordi di un bambino che la mattina dalla terrazza di casa sua vide arrivare l’onda di piena a sommergere la sua strada, il suo mondo, la macchina del babbo, i negozi, la scuola. E sentiva i suoi genitori che come gli altri adulti non sapevano nemmeno loro se disperarsi per la sciagura che era arrivata sulle nostre spalle, o meravigliarsi per poter assistere a un evento di quelli che solitamente si vedono solo al cinema. La sera del 4 novembre, Firenze era Venezia, per le sue strade passavano i gommoni e le barche, non le macchine. Solo dopo, più grande, seppi che spesso quelle barche erano alla disperata ricerca delle persone che allora vivevano nei seminterrati (appartamenti sotto il livello della strada, dopo di allora messi fuori legge) e che mancavano ancora all’appello. Solo dopo, seppi che grazie a Dio i morti per l’alluvione furono solo 34, 17 in città e 17 in provincia. Fosse stato un giorno di lavoro, sarebbe stata una strage ben peggiore.
L’acqua defluì, è ancora il bambino che ricorda, in un giorno, o poco più. Il fango ci mise più di un mese a sparire dalle strade di Firenze. Tutti gli uomini validi si misero al lavoro a spalare e a liberare le proprie cose, chi la macchina, chi il negozio, chi un fondo di magazzino. I più, soltanto per scoprire di aver perso tutto. I soccorsi arrivarono con la giusta calma, com’è uso in Italia. All’on. Aldo Moro, Presidente del Consiglio, un fiorentino giustamente in vena di polemica disse: “Eccellenza, non scenda dalla macchina, che si sporca le scarpe”. La gente aveva fatto da sé, lavorando tra disperazione, rabbia, e ironia tutta toscana. Narra una leggenda (con il fondo di verità di tutte le leggende) di quella donnina che vuotava la propria cantina gettando a secchiate fuori l’acqua e dicendo: «meno male c’è l’Arno, se no tutta quest’acqua dove si buttava?».
Il danno più lungo ad essere riparato fu quello al patrimonio artistico. Gli angeli del fango arrivarono da ogni parte del mondo a salvare quel patrimonio che già allora era sentito come appartenente a tutta l’umanità. Il Cristo di Cimabue in Santa Croce fu purtroppo perso all’80%, le Porte d’oro del Battistero di Ghiberti dovettero affrontare un lungo restauro per essere salvate, così come la gran parte delle opere nei magazzini degli Uffizi e dei documenti della Biblioteca Nazionale. In quella circostanza, il prestigioso Opificio delle Pietre Dure raggiunse il livello di eccellenza che poi ha mantenuto da allora. Allo stesso modo, il Sopritendente alle Belle Arti Ugo Procacci ebbe modo di diventare una figura leggendaria.
L’alluvione di Firenze fu il primo evento di portata nazionale e mondiale a fare emergere il problema della mancanza di una struttura centralizzata di Protezione Civile, per arrivare alla quale occorsero altri disastri, dal terremoto del Belice a quello delFriuli fino a quello dell’Irpinia, quando finalmente Giuseppe Zamberletti fu nominato a capo del neonato Dipartimento, guarda caso da un Presidente del Consiglio fiorentino, Giovanni Spadolini. Si era nel 1981, quindici anni dopo. Nel 1982 fu ultimato il Canale Scolmatore dell’Arno, all’altezza di Pontedera, che dovrebbe nelle previsioni dei tecnici evitare il ripetersi di una simile calamità, soprattutto a danno di Pisa. Non si sono mai sopite inoltre le polemiche (peraltro mai arrivate a definizione giudiziaria) di chi accusò i gestori delle Dighe di Levane e La Penna (a nord di Firenze) di aver causato il disastro aprendo le stesse senza che ce ne fosse reale necessità.
Il Governo nazionale si limitò allora ad un contributo a fondo perduto di 500.000 lire a chi aveva perso il negozio, finanziate con una delle tante accise (di 10 lire al litro) sul prezzo della benzina, peraltro ancora oggi in vigore. La Fiat offrì uno sconto del 40% a coloro che avevano perso la macchina e desideravano ricomprarne subito un’altra. Marchionne era ben di là da venire all’epoca. Gli altri aiuti giunsero grazie a privati sensibilizzati da personalità del mondo dello spettacolo, come Franco Zeffirelli che realizzò il celebre documentario Per Firenze, con la voce in italiano di Richard Burton.
E’ stato calcolato che se si ripetesse oggi una alluvione come quella di Firenze, il danno economico sarebbe valutabile sui 20 miliardi di euro, pari al valore di una legge finanziaria. Stavolta a finire in ginocchio non sarebbe solo Firenze ma tutta l’economia nazionale. Meglio riderci sopra, ricordando la battuta del Conte Nello Mascetti, in Amici Miei di Mario Monicelli, alla signora affacciata alla finestra che gli chiede se c’è pericolo. «Signora, qui siamo su un dosso, l’acqua ‘un po’ arrivare!». Un attimo dopo arriva l’onda. simone borri
Lascia un commento