Gli istanti che precedono i cazzoti di Delio Rossi ad Adem Llajic
Delio Rossi è uno di quegli allenatori che avrebbero fatto la fortuna dei cronisti degli anni 70, vivendo in bilico tra serie B vinte all’arrembaggio e serie A vissute di sfuggita. Personaggio che una volta si definiva sanguigno, allenatore di poche convinzioni tecniche ma confuse, aziendalista soprattutto se l’azienda fa come dice lui.
Viene da due esperienze controverse, la prima con la Lazio di Lotito, altro caratterino niente male con cui vive un rapporto di amore – odio culminato nel deferimento alla Procura Federale (e successiva condanna) per aver tentato di influenzare le prestazioni del Lecce al termine di quel campionato 2004-05 in cui il Lecce stesso è stato al centro di numerose chiacchiere, e ne sa qualcosa proprio la Fiorentina. Delio Rossi si becca una squalifica di tre giornate, e la conferma sulla panchina laziale. Con i biancocelesti gli va bene comunque in quattro stagioni su cinque, giocando spesso i preliminari di Champion’s League e vincendo una Coppa Italia.
La seconda esperienza è al Palermo di Zamparini, altro caratterino niente male. Con i rosanero finisce nelle zone alte della classifica e gioca un’altra finale di Coppa Italia, persa contro l’Inter del post Mourinho che comunque gli vale una risoluzione del contratto. E’ un allenatore su cui è difficile esprimere una valutazione complessiva, ma che indubbiamente può invogliare a farci un pensierino, ed un tentativo.
La Fiorentina che la sera del 6 novembre 2011 si convince di non poter più continuare con un Mihajlovic che ormai i giocatori non seguono più (se mai l’hanno seguito, da quando è stato dichiarato il loro stato di vedovanza nei confronti di Prandelli) è nelle condizioni di volere fare quel pensierino e quel tentativo. Delio Rossi appare un allenatore di carattere, solido, affidabile per traghettare la Fiorentina fuori dal pantano in cui si è cacciata, con una proprietà ormai distratta da questioni urbanistico – affaristiche ed un ambiente che rimugina su quella promessa di scudetto avventata che avrebbe dovuto realizzarsi giusto in quel 2011.
Delio arriva e conferma il suo aziendalismo avallando la cessione al Genoa di un Gilardino che non ha sostituti, e lo scambio Tanque Silva (spedito al Boca Juniors) – Amauri (reduce da una panchina senza futuro alla Juventus) come unico contributo del mercato invernale. Avalla anche i propositi di messa in tribuna di Riccardo Montolivo, invocati da una piazza inferocita per il suo proposito dichiarato di passare a fine stagione al Milan a parametro zero e ventilati anche da uno staff dirigenziale che sulla vicenda ha molto da farsi perdonare. Propositi che non potranno comunque aver seguito perché Montolivo è una delle poche risorse rimaste ad una Fiorentina che scivola sempre più giù, in classifica e nel morale.
Torna in gruppo Stevan Jovetic, ed è una mano santa perché i suoi gol tengono a galla la Fiorentina tra la fine del girone di andata e quello di ritorno. Tra la partita di andata con la Roma al Franchi in cui il montenegrino guida la carica dei viola che danno una batosta ai giallorossi, 3-0, e quella di ritorno in cui grazie a lui e ad un gol di Lazzari in zona Cesarini espugnano l’Olimpico, la Fiorentina con i suoi alti e bassi galleggia al limitare della zona pericolo, finché la sconfitta a Bergamo con l’Atalanta non la getta nel dramma.
Ma prima di quello, a Firenze si è vissuto un dramma ben peggiore. Uno di quelli che segnano il morale più che la classifica. Il 17 marzo è scesa al Franchi la Juventus. La partita è stata preparata dai tifosi con minuziosa ironia. Tutto lo stadio viene munito di parrucche viola per sbeffeggiare il nuovo allenatore bianconero, quell’Antonio Conte che oltre ad un trapianto di capelli si è dovuto sorbire una gavetta in provincia e che adesso con i bianconeri si affaccia al grande calcio.
Dopo Calciopoli e gli anni di un non entusiasmante ritorno in serie A, quell’anno la Juve è tornata a fare sul serio, e combatte contro il Milan (anche a suon di sviste arbitrali come quella che nello scontro diretto provoca l’annullamento a Muntari di un gol entrato in porta di almeno due metri) per la ripresa del discorso scudetto che secondo la Federazione è fermo a quota 28 e secondo la società degli Agnelli è a quota 30, conquistati sul campo.
Se Delio Rossi è un aziendalista, Antonio Conte lo è anche di più. Sa bene che la sua azienda vuole una vittoria che sia esemplare, su quel campo sul quale per la Juve non c’é mai stata vita facile e men che meno simpatia. Prepara quella partita come una campagna militare, aggiungendoci anche una rivalsa personale. I suoi capelli sono solidi come la sua squadra, e la Juve – al cospetto di una Fiorentina che sta in piedi per scommessa – non solo non perdona, ma umilia.
I viola reggono poco, fino all’espulsione di Cerci. Poi è una Caporetto che alla fine ferma il pallottoliere a cinque gol bianconeri e zero dei padroni di casa. La peggior sconfitta in assoluto di sempre per la Fiorentina. La peggiore con l’aggravante di essere stata ottenuta contro l’avversario peggiore che ci sia. Generazioni che si rivoltano nella tomba. Tifosi che a metà partita hanno già abbandonato gli spalti per assieparsi di fronte all’uscita del Franchi, per una contestazione alla società quale non si vedeva da tempo immemorabile. Contestazione che la polizia trattiene a stento.
Quella notte, con quel risultato che grava sulla città di Firenze come una nube tossica che niente sembra poter disperdere, il regno dei Della Valle sembra giunto alla fine. Dieci anni di promesse, di momenti non meno difficili di quelli vissuti con altre proprietà (che almeno qualche trofeo avevano però aggiunto alla non fornitissima ma dignitosissima bacheca viola), per arrivare a quella vergogna e a quella rabbia. All’ennesima carica della polizia contro tifosi che non sopportano di doversi ripulire dalle maglie (e dalle parrucche) viola anche quel fango insopportabile.
E’ la notte della vergogna. Il momento più basso della storia della Fiorentina insieme a quello del fallimento. Ma stavolta il Palazzo non ha colpa, stavolta è tutta colpa di Firenze, o almeno di chi ne gestisce il titolo sportivo. Stavolta qualcosa dovrà succedere. Comunque finisca la stagione (ed in quel momento le prospettive non sono affatto rosee), qualche testa dovrà saltare. Dovrà correre – metaforicamente parlando – del sangue per purificare la profanazione operata sulla città dalle armate bianconere a cui con troppa facilità dei capitani di ventura infingardi hanno aperto le porte delle mura.
Quaranta giorni dopo, la Fiorentina che perde a Bergamo è una squadra sull’orlo del baratro, abbandonata da una società che non si sa a cosa pensi, che piani abbia per il futuro, che intenzioni abbia per il presente. Una settimana dopo, il baratro si spalanca nel modo più improbabile ed incredibile.
Arriva al Franchi la cenerentola Novara, fanalino di coda che all’andata una Fiorentina non ancora i stato completamente confusionale aveva battuto per 3-0. Ne è corsa di acqua nel frattempo sia lungo l’Arno sia lungo quel torrente Agogna che dopo il capoluogo piemontese si getta nel Po. Il mondo sembra essersi girato sottosopra, se al 30’ del primo tempo gli ospiti stanno sul 2-0, e i padroni di casa stanno in preda ad uno psicodramma che sembra preludere ad un altro imprevedibile dramma sportivo.
La serie B è ad un passo, quando Delio Rossi richiama in panchina Adem Llajic per sostituirlo con Ruben Olivera, un muscolare a cui una società ormai in preda alla dissociazione ha affidato quella maglia che forse era bene ritirare diversi anni prima, la numero 10. In quel momento i fiorentini hanno però altro a cui pensare. Seguono il caracollare del serbo verso la panchina, assistono allo scambio di consegne tra i giocatori, ed allo scambio di battute tra giocatore e tecnico. Un attimo dopo Delio Rossi si avventa su Adem Llajic cercando di raggiungerlo con dei cazzotti a stento trattenuti dagli altri dello staff presenti in panchina. Il mister viola pare essere fuori della grazia di Dio, non ci vede più sfogando una rabbia accumulata per mesi ai margini dell’impotenza. La sfoga sul malcapitato ragazzetto serbo che – si saprà dopo – gli ha offeso sarcasticamente la mamma probabilmente sfogando a sua volta una analoga frustrazione.
I cazzotti di Delio Rossi vanno in mondovisione. Il commento dei presenti è pressoché unanime, «bastava che aspettasse di essere negli spogliatoi». Ma la società non può ragionare così, di fronte a quella evidenza, e dopo la partita non può far altro che esonerare il tecnico (che in seguito le farà causa, perdendola). Nel frattempo, il reprobo Montolivo ha salvato la patria che tra poco non sarà più sua segnando quei due gol che pareggiano l’incontro e tengono la Fiorentina appesa alla serie A.
Con un margine di 30 punti la Fiorentina va a Lecce alla penultima giornata. Sembra di essere tornati a Pescara nel 1978. In panchina al posto di Rossi ci va quel Vincenzo Guerini che è tornato quell’anno a Firenze come dirigente sportivo, club manager. La gente lo ha accolto a collo torto, ritenendo che quel posto spetti a Giancarlo Antognoni, nei confronti del quale perdura l’ostracismo dei Della Valle. Vincenzo si comporta da signore qual é, incassa e fa buon viso a cattivo gioco. Accetta anche quella panchina che brucia come poche altre. E come gli eroi dell’Antica Roma riporta a casa la salvezza, senza pretendere nessuna onorificenza.
A Lecce decide Cerci, che a fine stagione si sa già che andrà via, avendo esasperato perfino l’erba del Franchi. Dopo Montolivo, un altro reprobo lega il suo nome ad una salvezza che la Fiorentina ha fatto di tutto per vanificare. All’ultima giornata con il Cagliari a Firenze è 0-0, e i viola sono salvi.
Ma c’é tutto da rifare da capo, come avrebbe detto Gino Bartali. E soprattutto non c’é più la certezza che i Della Valle siano in grado di rifarlo. Andrea se ne va dalla Tribuna Autorità sotto i fischi della contestazione. Sembra proprio che sia vicino un altro anno zero.
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