Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 46. L’anno delle carogne

Questa è la storia di un anno che sarebbe dovuto andare diversamente. Una storia che avrebbe dovuto avere un altro finale. Anche se nella vita difficilmente le storie hanno il finale che ci aspettiamo. Ma quell’anno sì, le cose avrebbero dovuto andare in un altro modo. Diverso dal solito, da quel solito che negli ultimi trent’anni per la Fiorentina é diventata la normalità.

Correva l’anno 2013, e la Fiorentina di Diego e Andrea Della Valle aveva già fatto una grossa scommessa portando ad assistere alle partite di quella che sarebbe diventata la sua squadra quel Giuseppe Rossi che contendeva a Roberto Baggio l’immensità del talento calcistico e quella della sfortuna, misurata dal numero di incidenti avuti alle ginocchia. Con Baggio alla fine era andata bene, si sperava che succedesse altrettanto con Pepito, su cui la società aveva investito una cifra considerevole prelevandolo da quel Villareal che ci aveva già dato Borja Valero Iglesias e Gonzalo Rodriguez.

Villareal era un canale felicemente aperto e proficuo per la Fiorentina. Altrettanto lo era il Bayern Monaco, almeno quando non ci si doveva giocare contro e Ovrebo non era nei paraggi. Ai bavaresi i Della Valle avevano ceduto Luca Toni, dai bavaresi ebbero l’idea di prendere colui che l’aveva poi sostituito, il centravanti della nazionale tedesca con quel singolare cognome spagnolo.

Gli avvistamenti di Mario Gomez a Firenze si erano susseguiti per mezza estate. L’altra mezza trascorse nell’euforia scatenatasi allorché la società annunciò il suo effettivo ingaggio. Per la presentazione del giocatore lo Stadio Franchi si riempì come non succedeva più dai tempi di Socrates, quasi trent’anni prima. Anche in questo caso, l’accostamento era scaramantico, si sperava che il destino del Supermario tedesco sarebbe stato diverso da quello del Dottore brasiliano.

La Fiorentina aveva risposto degnamente alla Juventus che aveva preso l’argentino Tevez ed al Napoli che aveva preso l’altro argentino Higuain, sfruttando la cessione di Cavani. Francamente, un attacco composto da Rossi e Gomez non sembrava da meno di quello di nessun’altra squadra, e legittimava di nuovo sogni di gloria.

Il 22 agosto 2013 la Fiorentina era già a Zurigo a disputare il preliminare di Europa League contro il Grasshoppers. Non incontravamo le cavallette dai tempi della bomba carta di Salerno, e fu una piacevole vendetta, un piatto a cui il freddo dei quindici anni trascorsi aggiunse sapore. Soprattutto fu insaporito da quella specie di formula matematica che rendeva letale l’attacco viola: 11-22-33. I numeri di maglia di Juan Guillermo Cuadrado, Giuseppe Rossi e Mario Gomez, un tridente contro cui sembrava che non ci fosse scampo per nessuno. E che metteva addirittura in secondo piano i pur ottimi altri acquisti effettuati quell’estate dalla Fiorentina, come Josip Ilicic, Joaquin Sanchez Rodriguez e Massimo Ambrosini, oltre ad una serie di giovani interessanti come Marko Bakic e soprattutto Marcos Alonso.

11, 22 e 33……

In un clima arroventato dalla guerra mediatica tra il Gruppo Tod’s e quello Fiat (Marchionne aveva parlato di Firenze definendola una piccola città e il patron viola aveva replicato definendo gli Agnelli buoni soltanto ad andare a sciare), la Fiorentina cominciò ad accreditarsi insieme al Napoli come la più verosimile rivale della Juventus che Antonio Conte aveva riportato allo scudetto ed ai vecchi fasti. Nemmeno la sconfitta casalinga nel ritorno di Coppa con il Grasshoppers riuscì a spegnere gli entusiasmi cittadini, sia perché il conto dei gol segnati in trasferta restò favorevole alla Fiorentina che superò il turno accedendo alla fase a gironi, sia perché quell’11-22-33 lì davanti continuava a sembrare comunque irresistibile.

E lo rimase almeno per i primi due turni di campionato, che videro i viola superare in casa l’ostico Catania e poi andare addirittura a maramaldeggiare a Marassi il Genoa, un 5-2 propiziato da un gol di Aquilani e perfezionato da una doppietta a testa per Pepito e Gomez.

Ma il destino è sempre in agguato, anzi pare che negli ultimi decenni abbia preso casa nei dintorni di Firenze. Quella volta decise di farsi vivo subito. Alla terza giornata veniva a Firenze il Cagliari, squadra che aveva fama di non essere meno ostica del già affrontato Catania, con Daniele Conti, Naingollan e Pinilla a guidare una pattuglia di gente che si faceva rispettare con le buone o con le cattive.

Gomez il giorno della presentazione al Franchi

A Firenze, stavolta, scelse le cattive, sotto gli occhi – si fa per dire – dell’arbitro De Marco che più che arbitrare lasciò che i 22 in campo se la vedessero tra loro. La Fiorentina non aveva l’abitudine di aspettarsi grosse tutele arbitrali, ma quel giorno fu decimata dalle botte dei cagliaritani. Dopo venti minuti Naingollan aveva già fatto volare per aria Cuadrado, menomandolo. A mettere fuori uso Mario Gomez per un bel pezzo i sardi ci impiegarono un po’ di più. Al 50° il portiere Michael Agazzi uscì sul tedesco interessandosi direttamente del suo ginocchio piuttosto che del pallone. Gomez sarebbe rimasto fuori squadra per un intero girone. Con il tridente di cui sopravviveva soltanto la punta più fragile, Pepito Rossi, si incaricò Borja Valero di portare in vantaggio i viola verso la fine della partita, ma era destino che al danno si aggiungesse la beffa. Pareggiò Pinilla, consueta bestia nera viola, al 90°. E per la Fiorentina il campionato proseguì con il leit motiv di altre volte: come sarebbe andata se….

Nel frattempo, una società troppo preoccupata di rientrare economicamente aveva già venduto Stevan Jovetic al Manchester City e Adem Llajic alla Roma, realizzando un utile considerevole ma privando Vincenzo Montella di alternative proprio nel momento in cui il suo attacco si riduceva al solo Giuseppe Rossi.

Malgrado le migliori intenzioni, la Fiorentina si ritrovava nella condizione dell’anno precedente: squadra dal gioco splendido, ma dall’attacco spuntato. Anche Luca Toni era stato lasciato andare via, in quel di Verona, credendo come già aveva fatto il Bayern Monaco che Gomez lo avrebbe reso superfluo. Lucagol era già in testa alla classifica dei cannonieri, e a Firenze si faceva il bilancio su cosa stesse pesando di più, tra ingenuità e sfortuna.

Ma i risultati altalenanti di quel girone di andata sono passati alla storia per un motivo: sono accaduti prima o dopo il 20 ottobre? Quel giorno arrivava al Franchi la Juventus, e per quanto attardata la Fiorentina aveva altre motivazioni che non la classifica. Come sempre. Viviano, il portiere – tifoso non c’era più (sostituito dal giovane brasiliano Norberto Murara Neto) ma la sua sintesi felice di Fiorentina – Juventus aleggiava ancora negli spogliatoi viola: chi indossa questa maglia sa tutto ciò che c’é bisogno di sapere.

Giuseppe Rossi entra nella leggenda viola segnando tre gol alla Juve

Dopo la notte della vergogna e quella in cui per restituire il servizio alla Juve era mancato solo il gol, venne un pomeriggio che all’inizio sembro anch’esso di un giorno da cani. La Juventus si portò in vantaggio con Tevez e Pogba, grazie a due ingenuità della difesa viola. Tevez addirittura andò alla bandierina sotto la Fiesole a fare addirittura il gesto della mitraglia che era stato di Batistuta. Ma i tifosi non fecero a tempo ad arrabbiarsi, perché nella ripresa Pepito Rossi dette un saggio di quel talento che ne aveva fatto quasi una leggenda. La pagina che scrisse al Franchi ribaltando il risultato con tre gol segnati a Gigi Buffon ed il quarto offerto a Joaquin fu forse la più bella in assoluto della sua carriera. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stata anche l’ultima.

A Reggio Emilia, nello stadio MAPEI che ospitava le partite del Sassuolo, Pepito segnò il suo ultimo gol di quel campionato dando alla Fiorentina una vittoria che le consentì di festeggiare degnamente le festività natalizie. Si riprendeva il 5 gennaio 2014, e a Firenze era atteso a giocare il Livorno, squadra che si sarebbe dimostrata non meglio disposta di quel Cagliari che ci aveva fatti letteralmente a pezzi. Gli amaranto per la verità colpirono una volta sola, ma furono letali.

Al minuto 71, dopo che Gonzalo aveva portato in vantaggio da poco la Fiorentina, su una palla a centrocampo apparentemente innocua e con Giuseppe Rossi spalle alla porta il ginocchio di Leandro Rinaudo entrò con precisione millimetrica dentro quello del giocatore viola mentre costui si stava girando. Le lacrime dell’italo-americano della Fiorentina mentre lasciava il campo sarebbero rimaste nella memoria collettiva dei fiorentini, e dettero subito la sensazione che non solo il campionato del giocatore era improvvisamente finito, ma anche quello della squadra.

Mario Gomez tardava il suo rientro nei ranghi, accusando ancora dolore. Il tempo stringeva, e la stagione ai primi di marzo era giunta al suo momento decisivo. Staccata in campionato, la Fiorentina era ancora in corsa in Coppa Italia ed in Europa League. Tra il 9 ed il 20 marzo avrebbe dovuto incontrare tre volte la Juventus, una per il campionato (ed era la rivincita del 4-2 del Franchi che Conte e i suoi attendevano da tutto un girone) e due in coppa internazionale. Andò male la prima, un 1-0 a Torino che avvicinò la Juve al suo secondo scudetto consecutivo. Andò bene l’andata di coppa, 1-1 ancora a Torino con il rientrante Gomez che dette il suo unico segno di vita pareggiando alla fine il gol di Vidal in apertuta di incontro.

Andò malissimo stavolta al Franchi. La Fiorentina aveva tutto, il vantaggio del gol fuori casa, lo stadio amico stracolmo, un arbitro internazionale – l’inglese Webb – che si dimostrò imparziale. Nel primo tempo ebbe anche occasioni da gol clamorose. A venti minuti dalla fine, sullo 0-0, alla Juve bastò un’unica occasione, una punizione dal limite provocata da Llorente che causò anche l’espulsione di Gonzalo per fallo da ultimo uomo. Da quella distanza, il piede di Pirlo non perdonava. E infatti non lo fece.

Restava, di una stagione che come altre volte aveva promesso tutto e mantenuto niente, da giocare la finale di Coppa Italia. All’Olimpico di Roma la Fiorentina incontrava il Napoli. Partita tra le due squadre che stavano giocando il calcio più spettacolare di quella annata. Partita che cominciò con un’ora e mezzo di ritardo per i gravi incidenti tra la tifoseria partenopea e quella romanista che portarono alla morte del napoletano Ciro Esposito (mentre la tifoseria viola era confinata nella curva assegnatale senza che nessuno si prendesse la briga di metterla al corrente di quanto stava succedendo).

Più di un’ora trascorsa a vedere le autorità in tribuna (tra cui i patron Della Valle e de Laurentiis) parlottare tra loro incerti sul da farsi. E soprattutto a vedere quel tifoso napoletano, tale Jenny ‘a Carogna, issarsi sulle reti divisorie e da lì orchestrare una situazione paradossale che stava paralizzando uno stadio, una città, un paese.

Quando si prese a giocare, in un clima surreale, per la Fiorentina era notte fonda più che per il Napoli, e Lorenzo Insigne le affondò due volte colpi che erano peggiori che coltellate. Al gol della bandiera di Vargas seguì il mancato 2-2 ciabattato da Ilicic, e poi il 3-1 definitivo di Maertens. Ed infine, il mesto ritorno a casa di una squadra e di tifosi che non sapevano di essere stati partecipi – a tutt’oggi – dell’unica occasione in cui la Fiorentina di Della Valle era andata vicina a vincere un titolo.

Del quarto posto finale di quel campionato crediamo che non se ne ricordi più nessuno.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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