Nella foto: l’ingaggio di De Sisti da parte di Pontello
Aprile 1980. Allo Stadio Comunale di Firenze esplose la contestazione dei tifosi verso la proprietà di una Fiorentina che stava concludendo un campionato neanche tanto male (sesto posto, alla fine) se si consideravano i precedenti in alcuni dei quali aveva rischiato addirittura la retrocessione in serie B, ed il fatto che gli anni d’oro in cui non si scendeva mai al di sotto del quarto o si considerava perfino un secondo posto insoddisfacente e frutto di malevolenza da parte del Palazzo sembravano ormai irrimediabilmente lontani.
All’ultima giornata casalinga arrivò l’Inter che aveva appena vinto lo scudetto, a festeggiarlo in una piazza amica. Le tifoserie erano gemellate, le società avevano buoni rapporti, era freschissimo il ricordo di Scanziani e del suo gol in extremis che per la seconda volta in pochi anni aveva tolto castagne roventi dal fuoco del campionato viola. Avrebbe dovuto essere una festa, appunto, con l’Inter tricolore e la Fiorentina ritornata nelle zone alte (e tranquille) della classifica. Segnò Oriali con un tiro quasi da centrocampo, all’olandese, e la giornata degenerò invece in una battaglia campale.
La gestione di Ugolini che negli ultimi tempi si era avvalso dei collaboratori Rodolfo Melloni ed Enrico Martellini si concludeva tristemente tra le urla e i mortaretti degli Ultras da un lato ed i fumogeni della Polizia dall’altro. Per quasi un decennio l’industriale della gomma aveva cercato di rinverdire i fasti del suo predecessore, Nello Baglini, che aveva portato a Firenze il secondo (e a tutt’oggi ultimo) scudetto lanciando la prima linea verde, ma senza la stessa fortuna. Ugolini lasciava a Firenze in eredità soprattutto il cartellino di Giancarlo Antognoni, per i fiorentini ormai qualcosa di paragonabile al David di Michelangelo, per ottenere il quale la Juventus aveva sferrato una lunga ed insistente quanto inutile offensiva.
Ma d’improvviso, tutto questo non bastava più. Gli anni del ridimensionamento e della grande paura avevano lasciato il segno. La gente aveva voglia di tornare a sognare, di veder la Fiorentina volare come faceva in anni non lontanissimi. La rabbia dei tifosi contro il tempo che passava ed il destino che voltava le spalle si riversava contro una società che in fondo aveva fatto tutto quello che poteva, e forse anche di più. Firenze stavolta prese fuoco. Lo fa e lo avrebbe fatto di rado, anche in seguito, ma quando lo fa è ancora impressionante come all’epoca del tumulto dei Ciompi.
La contestazione si placò però improvvisamente all’annuncio che la società viola era stata acquistata da una nota famiglia di imprenditori edili locali che stavano acquistando fama crescente: i Pontello. E praticamente nel giro di una notte, la rabbia si trasformò in estasi.
Flavio Callisto, il capofamiglia, era l’erede di una famiglia di imprenditori assurti al rango nobiliare, originari del Friuli e poi trasferitisi a Firenze, che avevano appunto legato con successo le proprie fortune all’edilizia. Nel 1944 il giovane Flavio aveva dovuto abbandonare gli studi di ingegneria al Politecnico di Milano, perché la guerra e l’occupazione nazista si erano portati via i vecchi. Lui, che era il più grande di quattro fratelli, Claudio, Gianluigi e Miuta, aveva ereditato le redini dell’impresa di famiglia, la S.a.s. Costruzioni Pontello. Negli anni sessanta la ditta aveva partecipato in modo consistente alla realizzazione della rete autostradale che stava modernizzando l’Italia lanciandola nel boom economico.
All’inizio degli anni 80, i Pontello erano in cerca di un futuro ancora più fulgido, dell’ultimo salto di qualità che li avrebbe consacrati come imprenditori al top. Si incontrarono al momento giusto con una Fiorentina che invece era in cerca di un ritorno al passato, quello più glorioso. Fu così che Martellini passò la mano a colui che da quel momento in città sarebbe stato conosciuto come il Conte, e la Fiorentina aggiunse al suo blasone uno stemma nobiliare, in attesa di aggiungere finalmente altri trofei alla bacheca.
Flavio Pontello era un personaggio singolare, che non si accontentava di partecipare. Voleva primeggiare. Nel 1968 aveva istituito una Fondazione per l’incremento degli studi e delle ricerche scientifiche in edilizia e in architettura, che ogni anno assegnava premi cospicui a giovani studiosi. Per tutto ciò che aveva fatto, nel 1973 aveva ricevuto il Cavalierato del Lavoro dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone.
C’era già stato un nobile tra i proprietari nel corso della storia della Fiorentina, il fondatore marchese Luigi Ridolfi. Ma stavolta parve da subito che si facessero le cose in grande, molto in grande. Non appena la Fiorentina fu nelle sue mani, anche se formalmente alla carica di presidente del club fu designato il figlio Ranieri, il Conte non nascose l’intento di farne uno squadrone che avrebbe dominato il campionato italiano, «spazzando via quei meccanici di Torino», cioé a dire la Juventus.
E a voler rendere ancora più forte la sensazione di distacco con il passato, più visibile il cambiamento epocale, i nuovi padroni viola andarono addirittura a toccare due paramenti sacri del tifo viola: quel giglio che campeggiava sulla maglia dai tempi di Ridolfi e che uscì per la verità stravolto da un restyling che incontrò soprattutto le perplessità se non le aperte polemiche dei fiorentini, e l’inno glorioso cantato da Narciso Parigi, che fu accantonato in favore di una bossanova anch’essa accolta da numerosi scuotimenti di testa. Ma i fiorentini, in quel momento, pur di tornare a vincere avrebbero accettato pressoché qualsiasi cosa. E Pontello aveva promesso soprattutto quello.
Il primo anno, per la verità, la nuova società si ritrovò a dover gestire la vecchia squadra ereditata da Martellini, con Paolo Carosi allenatore. Alla quale fu aggiunto un pezzo unico, ma pregiatissimo, il puntero Daniel Ricardo Bertoni. La Federcalcio aveva appena riaperto le frontiere chiuse dal 1966 e i Pontello erano andati a pescare in grande, prelevando dal Siviglia colui che aveva deciso la finale del campionato del mondo del 1978, dando la vittoria alla sua Argentina.
Fu una annata strana, cominciata bene con due vittorie consecutive e proseguita in modo assurdo con un intero girone d’andata trascorso senza vincere mai, otto pareggi e sei sconfitte tra le quali spiccarono quella in casa nel derby contro la Pistoiese che aprì la crisi viola, e quella sempre in casa contro la Juventus che lungi dall’essere spazzata via rese definitiva quella crisi, determinando l’esonero di Carosi.
Al suo posto fu chiamato un allenatore esordiente, appena patentato. Un ex ragazzo di enorme talento che Firenze non aveva dimenticato, vuoi perché aveva indossato con onore la fatidica maglia numero 10, vuoi perché aveva contribuito in modo determinante ad appuntarvi sopra lo scudetto tricolore. Picchio De Sisti era destinato a legare il proprio nome ad un’altra epopea viola, un’altra lotta per lo scudetto dopo quella del 1969. Ma all’inizio della sua permanenza sulla panchina viola sembrava che non gli si potesse chiedere altro che una nuova, problematica salvezza.
E invece, mettendo in fila quattordici risultati utili tra i quali stavolta i pareggi furono interrotti dalle vittorie (prestigiosa quella a San Siro in casa dei campioni d’Italia dell’Inter), Picchio riuscì a festeggiare alla fine del campionato addirittura un quinto posto su cui, nonostante i proclami di inizio stagione, nessuno avrebbe mai scommesso. Una festa appena intristita dalla sconfitta all’ultima giornata in casa della Juventus, malgrado un’ottima prestazione. La Fiorentina era arbitra addirittura dello scudetto altrui, con i bianconeri che avevano tenuto dietro di sé i giallorossi della Roma grazie soprattutto all’annullamento del gol di Turone nello scontro diretto. Quel punto rimase, grazie al gol di Cabrini a cui i viola non riuscirono a rispondere.
La Juventus si appuntò sulle maglie il diciannovesimo scudetto, non facendo mistero del fatto che l’anno successivo avrebbe voluto anche il ventesimo. La Fiorentina non fece altrettanto mistero del fatto che l’anno successivo avrebbe voluto piuttosto che quello scudetto fosse il suo terzo, e cominciò ad attrezzarsi con una campagna acquisti quale non si era più vista dai tempi di Befani.
(segue)
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