Politica

Silvio Berlusconi, la storia d’Italia

(Nella foto: Silvio Berlusconi, Milano, 29 settembre 1936 – Milano, 12 giugno 2023)

Scompare Silvio Berlusconi, l’uomo che – comunque lo si giudichi – ha scritto, o contribuito a scrivere, forse, il maggior numero di pagine della storia dell’Italia repubblicana, insieme a Gianni Agnelli. Il Cavaliere e l’Avvocato. La Finivest e la Fiat, il potere economico e poi politico che hanno determinato e indirizzato la qualità della nostra vita e della nostra storia contemporanea.

Peccato non poterci essere quando tra 100 anni gli storici daranno il loro giudizio definitivo su di lui. Chissà cosa avrà prevalso, l’immagine dell’uomo che ha cambiato irreversibilmente la storia d’Italia o quella di colui che ha esaltato in maniera parossistica i vizi peggiori degli italiani? L’uomo che vendeva da giovane scope elettriche porta a porta, quello che poi nella maturità investiva soldi di cui nessuno ha mai accertato la esatta provenienza (ma molti hanno ipotizzato che fosse tra le più equivoche), o quello che da anziano sembrava ad un certo punto addirittura candidarsi a diventare presidente di una repubblica riformata in senso  presidenziale? Il demiurgo oppure il grande corruttore, anche se alla fine degli oltre venti procedimenti giudiziari a lui intentati solo uno è arrivato a condanna definitiva, e con modalità che hanno destato più di qualche perplessità?

Giulio Cesare, per dirne uno, è considerato unanimemente una delle più grandi figure storiche di tutti i tempi. Genio politico e militare, uomo che cambiò in modo definitivo la storia della sua epoca e di tutte quelle a venire, dai suoi contemporanei fu esaltato o detestato senza mezze misure, né fu fatto oggetto da essi di quel minimo di obbiettività che sarebbe necessario ma che è tuttavia impossibile adottare da parte di chi vive nello stesso momento della persona in questione. L’uomo che distrusse la Repubblica Romana, oppure l’uomo che permise la nascita e la prosperità dell’Impero Romano. L’uomo a cui si rivolgevano speranzosi e grati migliaia di veterani legionari e l’immensa plebe romana, ed anche quello che i suoi stessi parenti decisero di uccidere con 23 coltellate.

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Chissà quanto tempo dovrà passare perché Silvio Berlusconi sia fatto oggetto di un giudizio storico obbiettivo. Le passioni del proprio tempo sono sempre troppo intense per permetterlo. E allora chi vuole scrivere su di lui ha di fronte la materia più difficile. Perché da lui e intorno a lui passa buona parte della storia d’Italia, non solo quella degli ultimi 20 anni. Nei primi anni settanta, all’epoca della fondazione della Fininvest e prima ancora della costruzione di Milano 2, giornalisti autorevoli come Giorgio Bocca si chiedevano a voce più o meno alta da dove provenissero i capitali impiegati da questo costruttore che si stava affermando rapidamente, in un panorama nel quale, nell’Italia del boom economico, di costruttori edili ce n’erano a bizzeffe.

Finanziatrice di molte delle sue opere era la banca d’affari Rasini, di cui suo padre era amministratore delegato. E dentro cui è stato detto che transitasse denaro di provenienza non proprio limpida depositato da signori che non erano propriamente benemeriti della Repubblica, da Michele Sindona a Bernardo Provenzano, a Totò Riina, a Roberto Calvi, a Licio Gelli, a Monsignor Paul Marcinkus. Niente di tutto ciò ovviamente è mai stato provato, almeno sotto il profilo del riciclaggio di denaro poco pulito. Ma materia per dubitare ce n’era, come del resto è legittimo che sia.

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A fine anni settanta, un Berlusconi che aveva ormai raggiunto prestigio e notorietà e fondato la sua creatura più importante, la Fininvest appunto, acquisì due titoli che alimentarono entrambi i filoni della sua leggenda, quella bianca e quella nera: il Cavalierato del lavoro (per cui da allora è il Cavaliere, come Agnelli appunto era l’Avvocato) e la tessera della Loggia di Propaganda 2. E’ storia che conoscono tutti, anche senza aver letto Giorgio Bocca o Marco Travaglio. Da lì in poi, il mito dell’imprenditore di successo che rappresentava il sogno italiano al suo meglio e quello dell’intrallazzatore che realizzava per conto proprio o di altri il piano di rinascita democratica elaborato dalla P2 procedettero di pari passo. Da lì in poi, non fu più questione di obbiettività, ma più spesso di ideologia o simpatia a pelle, ed ognuno scelse la leggenda che più gli si confaceva.

Un punto in particolare di quel piano, qualunque fosse il suo rapporto con chi l’aveva ideato, l’imprenditore Berlusconi dimostrò di apprezzare e di voler realizzare: «il vero potere risiede nelle mani di chi ha in mano i mass media». Certo, non ci voleva Licio Gelli per una intuizione del genere, bastava aver visto Quarto Potere di Orson Welles. Da che esistono l’industria e la stampa, gli industriali hanno sempre cercato di possedere quotidiani prima e televisioni poi. Fatto sta che non appena nel 1976 la Corte Costituzionale liberalizzò le frequenze televisive sottraendole al monopolio di stato, Berlusconi fu uno dei primi ad intuire la potenza dell’arma di cui all’improvviso era possibile per chiunque dotarsi. Con l’acquisto di Canale 5 Silvio Berlusconi fece l’ultimo e decisivo passo verso la storia che tutti conosciamo.

Profondamente anticomunista, grande comunicatore esperto di marketing (non per nulla la sua tesi di laurea aveva riguardato la pubblicità a pagamento sui media), grande istrione capace di tenere avvinta con le sue parole apparentemente spontanee ma in realtà attentamente calibrate una platea variegata, il tycoon Berlusconi usò i suoi mezzi di informazione, le reti Mediaset, il Giornale di Montanelli (ancora per poco) e le case editrici che stava acquisendo, per la propaganda dapprima in favore dell’amico Bettino Craxi, segretario del PSI anticomunista quanto e più di lui, e poi in favore di se stesso.

Con Bettino Craxi ai tempi della sua Presidenza del Consiglio (1985)

Quando venne il momento di scendere in campo, nel 1994 dopo Mani Pulite e la fine della cosiddetta Prima Repubblica, nessuno poteva più meravigliarsi delle sue capacità di rivolgersi al più eterogeneo elettorato che la storia d’Italia ricordi e di convincerlo (nel più breve tempo che la stessa storia registri) ad affidarsi a lui. Nessuno poteva meravigliarsi, se non i suoi avversari politici che credevano di aver fatto o ottenuto tutto ciò che serviva a vincere con l’abbandono della Falce e Martello, il crollo del Muro di Berlino e la fine dei partiti di governo sotto la spinta del Pool di magistrati di Milano. E invece scoprirono che c’era una parte del paese per nulla convinta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, e che a quella parte Silvio Berlusconi aveva saputo parlare. Loro invece no.

Sui vent’anni e passa in cui Berlusconi ha governato o ha fatto opposizione a Prodi, D’Alema o chi per essi (i vari alter ego che la sinistra gli ha opposto a partire dalla fine anni novanta), si esprimerà la storia, come è doveroso che sia. Quello che si può dire senza mancare di obbiettività allo stato attuale, è che il politico Berlusconi si è dimostrato – a prescindere da qualsiasi considerazione sulle sue motivazioni e le sue finalità – di un’altra categoria rispetto ai suoi competitors.

Anche alla fine dei suoi giorni, ora che per età e per vicissitudini personali e politiche sembrava ai margini del gioco, l’onda lunga delle conferme di quanto sopra continua a lambire la nostra vita pubblica. In un panorama politico che in certi momenti è sembrato ritornare quello dei tempi della televisione in bianco e nero, con una serie di governi tecnici o comunque non votati ma piuttosto subìti dalla gente il cui operato insieme all’esplodere di scandali da far impallidire il ricordo di Mani Pulite hanno di fatto favorito un pericolosissimo distacco di quella stessa gente dalla politica, il periodico riapparire dell’ex premier Silvio Berlusconi ha continuato a bucare lo schermo come ai vecchi tempi.

Quando scelse finalmente di affrontare la sua nemesi Marco Travaglio, in una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro divenuta storica, il Cavaliere ottenne un risultato molto più significativo dei nove milioni di spettatori registrati quella sera. Sancì il ritorno (momentaneo) del colore, in senso figurato ma anche sostanziale, in quella fase politica di allora e in generale in una vita politica e civile che era sembrata prima ed ha continuato a sembrare in seguito destinata all’encefalogramma piatto ed avviata verso la crisi della democrazia in Italia. Verso la messa in discussione della sua stessa sopravvivenza come paese e come nazione.

Fu l’ultima volta che il vecchio centro-destra sembrò avere un unico leader effettivo, capace di rimettere in moto l’intero sistema politico italiano azzerato ed avvilito dal governo burocratico-bancario dei professori prima, e da quello riformistico-ciarlatanesco degli affabulatori poi.

Fu anche l’ultima volta che il sistema politico italiano poté campare di rendita beneficiando di quella tendenza alla semplificazione che ne ha avvelenato il funzionamento negli ultimi vent’anni: o con Berlusconi o contro Berlusconi. E tutti contenti, nessuno escluso, perché era tutto molto più semplice piuttosto che elaborare un programma politico in grado di dare risposte alla crisi economica che attanagliava ed attanaglia tutt’ora il nostro paese ed il nostro continente.

Come già successo per Mussolini ed il Fascismo, con Berlusconi in campo il quadro era semplificato a prescindere, o pro o contro, e pazienza se la gente intanto avrebbe preferito sapere cosa avrebbe fatto il prossimo governo, qualunque fosse, per risollevare l’economia nazionale degli anni 2000.

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In quel quadro politico, comunque, era indubbio che il Grande Comunicatore avesse avuto una marcia in più, e fosse riuscito a toccare corde nell’elettorato di cui gli altri ignoravano e ignorano l’esistenza. Come la Thatcher nella Gran Bretagna degli anni 80, dominatrice assoluta della scena finché il Labour Party non seppe opporle un alter ego capace di dispiegare la stessa efficacia ma nel campo opposto, Tony Blair, così anche il Partito Democratico sembrava alla fine aver trovato il competitor adatto a confrontarsi non tanto con un Berlusconi avanti negli anni e nel frattempo alle prese anche con la propria salute ed i propri guai giudiziari, quanto con il berlusconismo come sistema, perché – al pari del Cavaliere – apparentemente capace di parlare agli elettori nel modo in cui essi vogliono, a torto o a ragione, che ci si rivolga loro.

Matteo Renzi, anch’egli personaggio controverso di questo scorcio di storia politica italiana, amato o odiato senza mezzi termini ma comunque dotato del dono di saper parlare al popolo scegliendo i toni e gli argomenti giusti, era diventato negli ultimi anni molto più che il leader del centrosinistra. Gli ultimi gesti politici rilevanti di Silvio Berlusconi, prima dell’avvento nel centro-destra di una nuova leadership capace di rimettere in dicussione tutto, sono stati non a caso quelli di benedire la vittoria di Renzi alle primarie del PD, e poi di stipulare il patto del Nazareno, dove è stato disegnato il percorso politico-istituzionale seguito fino al 4 marzo 2018. Basato sull’intuizione, interessata e condivisa dallo stesso PD, che la forza antisistema di Beppe Grillo e dei Cinque Stelle fosse un pericolo ulteriore per quella democrazia che essa si proponeva di rifondare, oltre che per le rendite di posizione vigenti. Non si capisce il Berlusconi degli ultimi anni se non si parte da questa sua convinzione.

Nel giovane sindaco di Firenze diventato poi leader nazionale del PD l’allora leader del PDL aveva sì riconosciuto un antagonista inevitabilmente più formidabile di quanto la sua età gli avrebbe forse consentito di affrontare, ma nella sua ascesa aveva scorto anche la non necessità di un simile antagonismo. Paradossalmente, Renzi era colui in grado di portare a compimento il suo stesso programma. Magari accentuandone molti aspetti in senso più confusionario e meno liberal.

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Certo, da quel 2014 al Nazareno in poi è cambiato il mondo. Nel centro-destra si è affacciato dapprima un nuovo leader, Matteo Salvini, l’uomo che ha rimescolato le carte resuscitando una Lega Nord che sembrava sul viale del tramonto al pari del suo fondatore Umberto Bossi. Salvini, l’uomo che ha fatto di quella Lega un partito capace di parlare a tutto il paese, da nord a sud, l’uomo che ha saputo individuare quali sono gli argomenti di cui gli italiani vogliono sentire parlare, in questo scorcio di ventunesimo secolo. Al netto di storie personali e di caratteri completamente diversi, forse sembrava proprio Matteo Salvini il vero erede del Berlusconi capace di scendere in campo ed in breve tempo di sbaragliare tutte le forse avversarie, come Giulio Cesare nelle sue campagne militari. Almeno fino a che Giorgia Meloni non è arrivata a sua volta a insinuare il dubbio che il vero erede di Berlusconi non sia un uomo ma bensì una donna. Ecco, se c’é stata una figura politica e umana con cui Silvio Berlusconi in finale di carriera si è trovato in difficoltà, se non a tratti addirittura in soggezione, è stata proprio quella di Giorgia, l’unica nel centrodestra a non subire complessi di inferiorità nei confronti di chi l’aveva a suo tempo fondato.

Comunque sia, il Cavaliere che se n’é andato oggi (immaginiamo, con quel sorriso sulle labbra con cui ha affrontato tutta la sua vita) non è apparso fino all’ultimo un uomo finito, superato. Ha fatto la storia d’Italia, su questo non c’é dubbio. O si era con lui, o contro di lui. Pochi sono riusciti ad essere se stessi. Adesso che non c’é più, tutti saranno costretti finalmente ad esserlo.

Riposa in pace, cavalier Silvio Berlusconi.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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