Politica

Dio benedica lo Zio Donald

Kim Jong-un minaccia ogni giorno che potrebbe essere l’ultimo, che la Corea del Nord – il paese dove la sua famiglia regna dal 1945 (ma per legge fanno 105 anni, contando dal 1912 anno di nascita del nonno-fondatore dichiarato immortale dalla Costituzione comunista, malgrado secondo ogni evidenza sia morto nel 1994) – non ha paura degli imperialisti americani e da un momento all’altro lancerà quella bomba atomica che possiede ormai da dieci anni.

I nostri telegiornali aprono e chiudono ogni giorno con i venti di guerra, il rischio di svegliarsi ogni giorno che Dio mette in terra in conflitto (il peggiore dal 1945 ad oggi, a sentir loro) e qualsiasi innuendo che possa veicolare il messaggio per niente subliminale: con questo Trump alla Casa Bianca non si sa cosa aspettarsi…. tutto è possibile….. guarda cosa è successo in Siria…..

Viene da ridere a chi ha qualche anno in più, tanti quanti gliene bastano per ricordare una primavera di 37 anni fa, e sentirsi perciò stesso più giovane. Quando nella stessa Casa Bianca si insediò Ronald Wilson Reagan, gli stessi soggetti – o equivalenti – facevano gli stessi discorsi. C’era una consistente parte di mondo per cui l’America era anche allora il Grande Satana. C’erano poi i nostri media, che avevano già allora intrapreso il lento percorso di scivolamento nell’area culturale di sinistra e che dipingevano volentieri il nostro mondo ed il nostro tempo come disgraziati, in quanto finiti nelle mani di un pazzo.

Ringiovanire fa bene, ma ancor più ne fa forse rendersi conto che aveva ragione Giambattista Vico. La storia è fatta di corsi e ricorsi, come diceva il grande filosofo napoletano, ed è ciò che in fondo ci tranquillizza di più. Quello che qualcuno ci sta dipingendo come un Armageddon, l’ennesimo, è in realtà una delle crisi che osserviamo a scadenza ricorrente, da quando il mondo obtorto collo si è acconciato ad essere governato dalle cosiddette superpotenze. Una crisi che, da quando quello stesso mondo possiede armi di distruzione di massa micidiali, non può che risolversi alla fine se non con il prevalere del buon senso e lo stabilimento di un nuovo equilibrio. Del terrore quanto si vuole, ma comunque efficace.

Nessuno studia più Giulio Cesare. Si vis pacem para bellum, la guerra non è mai stata così lontana come quando abbiamo brandito armi terribili, arrivando sull’orlo della Fine del Mondo. Ai tempi dei guerrafondai americani che affossarono l’amministrazione Kennedy (e la sua vita stessa), la crisi dei missili a Cuba durò comunque appena tredici giorni. Un’inezia, se si pensa alle estenuanti trattative (sfociate comunque nella guerra, e che guerra) condotte dalle potenze occidentali per convincere Hitler a non mangiarsi l’Europa Orientale poco più di vent’anni prima.

Vent’anni dopo, con il Medio Oriente infiammato dalla rivoluzione khomeinista (la prima delle tante primavere arabe immaginate da una coscienza occidentale obnubilata dai fumi dell’alcool e dell’ideologia che, come una malattia autoimmune, si rivolta sistematicamente contro la vita e gli interessi della sua stessa gente) e l’Unione Sovietica apparentemente in mano di nuovo ai falchi, il matto Reagan sembrò spararle grosse fino alle stelle, fino allo scudo stellare. Nel 1983 sembrava che, per rispondergli, l’URSS dichiarasse guerra alla razza umana. Tre anni dopo l’URSS non c’era più.

Sono passati tanti anni, il mondo è cambiato ma l’incapacità della nostra opinione pubblica ben pasciuta di interpretare correttamente i propri interessi vitali no. Per una sinistra ancora sostanzialmente post-comunista è difficile non associare più gli Stati Uniti d’America a Satana. Ed alla Casa Bianca, va bene se c’é un colored, o una radical chic, altrimenti è sicuramente un matto.

Donald Trump non è più matto di chi l’ha votato, la stragrande massa di americani cioè che non ne possono più di vedere il proprio paese ed il mondo occidentale chiusi in un angolo da orde barbariche di ogni tipo, costretti sulla difensiva da aggressioni economiche, politiche e sociali che in breve tempo finiranno per avere un solo risultato: la nostra distruzione come cultura prima, come popolo poi.

Il matterello semmai sta a Pyongyang, ed è un matterello che ha già fatto sterminare brutalmente tanta gente, anche suoi stessi familiari, colpevole di non essersi inchinata al momento giusto o di aver sbadigliato ai suoi discorsi. E’ uno spostato che ha tra i suoi giocattoli di extra-lusso una letale playstation con la quale può sganciare bombe nucleari.

La sua minaccia forse non è più credibile di quella delle armi chimiche di Assad. Eppure la prendono tutti sul serio, sia chi tifa America che chi tifa contro. Perché? La risposta è semplice, per chi valuta correttamente gli interessi in campo. Come in Siria, così nell’Estremo Oriente gli Stati Uniti, dopo un letargo che è durato otto anni e che ci è quasi costato la sopravvivenza, sono tornati a far sentire la loro voce, ed è una voce che parla forte e chiaro.

Il punto non è se Assad abbia o meno armi chimiche come il Sarin, così come non lo era se le avesse avute Saddam Hussein. Il punto è che la presenza americana in Medio Oriente è fondamentale, se non vogliamo prima o poi le armate del Califfo alle porte di Roma, o quantomeno dipendere per l’approvvigionamento energetico essenziale da chi vorrebbe sterminarci atrocemente per editto divino.

Allo stesso modo, non ha importanza chi c’era nelle grotte afghane dove Trump ha sganciato la madre di tutte le bombe, se Al Qaeda, l’Isis o chi diavolo. Così come non importa se Kim ha davvero il dito sul bottone rosso che lancia la bomba.

La posta in gioco è un’altra. Riportare il mondo, per quanto possibile, a quel 1990 in cui ci illudemmo a proposito di sciocchezze come la nostra vittoria finale, la fine della storia. Perché il blocco sovietico non c’era più e quello occidentale credeva di essere stato catapultato improvvisamente e definitivamente in un parco giochi.

Ebbene, sono in tanti là fuori che vorrebbero il nostro parco per giocarci loro. Facendoci a pezzi né più e né meno come fecero i Visigoti con il Senatus PopolusQue Romanus millecinquecento anni fa. Se glielo permettiamo. Altrimenti dobbiamo fidarci della lettura americana di tutte queste crisi vere o presunte a giro per l’Asia.

Trump e Putin si intendono a meraviglia, la Russia vede tutt’altro che di mal’occhio una ripresa dell’iniziativa americana, di questa America, in quanto le offre un interlocutore con cui è facile intendersi e nello stesso tempo ridimensiona in successione la prosopopea casinista dell’Unione Europea (qualcuno a Bruxelles vorrebbe ancora applicare sanzioni ai russi), la cresta fin troppo alta di Erdogan e, last but not least, la marea gialla montante, quella Cina che ha smesso di andare in bicicletta da tempo e si sta comprando tutte le nostre ricchezze. Il nostro tenore di vita.

Non è un caso che i cinesi abbiano capito al volo cosa ci si gioca a Pyongyang, e stiano agendo da pompieri per richiamare a più miti consigli l’illustre spostato che governa laggiù. La Nord Corea non può fare la guerra agli Stati Uniti, realisticamente. Ma gli Stati Uniti, piegandola militarmente, stabilirebbero una bella testa di ponte a due passi da Pechino. Si ritornerebbe ai tempi del Vietnam, e stavolta non basterebbero le marce della pace a fermare gli yankee.

No, cari signori, non c’è uno spostato nella stanza dei bottoni al 1600 di Pennsylvania Avenue. Semmai gli spostati sono altrove. Compreso tra noi, tra quanti pensano di discettare di geopolitica comodamente seduti sul divano di casa propria con in grembo il laptop dal quale accedono ai social network. Chi vuole sconfiggere l’Occidente, non deve reprimere Facebook, ma anzi gli conviene incentivarlo.

Alla Casa Bianca piuttosto c’è finalmente qualcuno che legge la partita correttamente. Forse, abbiamo di nuovo qualche chance di portarla in fondo. O quantomeno di sopravvivere, come cultura e come razza.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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