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Ottobre Rosso

Quella notte, per il calendario giuliano che la Chiesa cristiana ortodossa – la vera fede secondo cui il vero Patriarca aveva sede nella Terza Roma, Mosca, la capitale degli Czar di tutte le Russie – aveva mantenuto quando quella cattolica aveva abbracciato quello gregoriano, segnò il passaggio dal giorno 24 al 25 ottobre 1917.

Per il resto dei cristiani, i dieci giorni che sconvolsero il mondo cominciarono la notte tra il 6 ed il 7 del mese successivo. Красный Октябрь, Krasny Oktyabr, Ottobre Rosso in realtà era novembre. Il mese in cui finì un’epoca antica che durava da fin troppo tempo, da un Medioevo che sopravviveva all’età moderna iniziata con il Rinascimento prima ed il Secolo dei Lumi e la Grande Rivoluzione Francese poi. Il mese in cui cominciò l’età contemporanea, in tutto il mondo.

La Russia dei Romanov era un residuato medioevale, al pari di quel Sacro Romano Impero a cui pretendeva di risalire l’Impero Asburgico. La dinastia traeva origine da Ivan il terribile, XVI secolo. Gli Czar, appellativo che deriva dalla corruzione in lingua slava di Cesare (poiché i sovrani del regno fondato da una commistione di popoli vichinghi e slavi a torto o a ragione alla caduta dell’Impero Romano d’Oriente si erano sentiti investiti dell’eredità di Roma e Costantinopoli), avevano unificato la Santa Madre Russia (un’entità percepita come mistica prima ancora che nazionale) a spese delle popolazioni tartare, altaiche e comunque asiatiche creando un impero che si estendeva attraverso la Siberia fino all’Oceano Pacifico, e anche al di là dello Stretto di Bering in Alaska, sul continente americano, fino al 1867 una colonia zarista.

La Russia dei Romanov fu uno dei due Imperi insieme all’Austria-Ungheria degli Asburgo che credette di potersi tuffare nell’avventura sanguinosa della Prima Guerra Mondiale emergendone illeso ed anzi accresciuto nella potenza e nei domini. Al contrario, le sue fragili strutture sociali furono fatte a pezzi dalla Grande Guerra. Non ressero al fronte interno, prima ancora che a quello esterno.

La famiglia imperiale dei Romanov

Le avvisaglie del 1917 avevano avuto luogo nel 1905, allorché la infelice guerra contro il Giappone aveva determinato una prima sollevazione iniziata dalla celebre Corrazzata Potemkin a Odessa, la cui epopea è stata magistralmente resa dal capolavoro di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. La rivoluzione, proseguita da sollevazioni di militari, operai e contadini, non fu risolutiva ma lasciò al paese in eredità un abbozzo di costituzione liberale, rappresentata dalla Duma, il primo parlamento russo di cui si abbia memoria.

Lo Czar Nicola II rimase in sella, e non fece tesoro di quelle avvisaglie. Nella sua famiglia, abituata ad una autocrazia che risaliva nella notte dei tempi, di solito non si era soliti farlo. Avrebbe dovuto, già suo nonno Alessandro II era caduto vittima di anarchici nichilisti, inaugurando una moda che avrebbe coinvolto in seguito il Re d’Italia Umberto I, il presidente USA William McKinley, fino all’Arciduca austriaco Francesco Ferdinando, il cui attentato determinò il precipitare degli eventi verso quella guerra mondiale da cui la Russia non sarebbe uscita illesa.

Grigorij Efimovič Rasputin

Ma Nicola, come tutti i Romanov, viveva in un altro tempo e non sapeva interpretare i segni del tempo nuovo che stava arrivando. La suggestionabilità sua e della consorte la Czarina Alice di Assia – al netto di tutti i particolari piccanti ascritti alla vicenda – li rese succubi di un personaggio improbabile, e sintomatico della situazione, come il monaco Rasputin. La tragedia avrebbe virato verso la farsa, se la guerra non avesse imposto il suo enorme tributo di sangue aggravando le già miserrime condizioni di vita della sterminata popolazione russa, operai, contadini, soldati ridotti alla disperazione da tre anni di guerra interminabile e senza sbocco apparente.

Due mesi dopo l’assassinio di Rasputin, la borghesia disse basta, imponendo allo Czar un governo liberale guidato prima dal principe L’vov e poi dall’avvocato Aleksandr Fedorovic Kerenskij.

Ma la rivoluzione di febbraio non era destinata ad entrare nella storia. Quella di ottobre sì. Le cose erano andate troppo avanti perché i liberali di Russia potessero gestirle. Il paese moriva di fame, la rabbia nelle strade, nelle fabbriche, nei campi, sulle navi e nelle trincee al fronte era montata fin troppo perché una borghesia peraltro ectoplasmatica potesse pensare di gestirla.

Lo Czar di tutte le Russie abdicò il 2 marzo 1917. Suo fratello il Granduca Michele, succedutogli, abdicò il giorno dopo. L’orso russo, risvegliatosi selvaggiamente, non poteva essere tenuto più a catena con i vecchi sistemi. Dal 3 marzo 1917 la Russia fu una repubblica, contesa tra la Duma liberale ed i Soviet, organismi sorti spontaneamente nei luoghi di lavoro e che ben presto furono teatro della egemonia dei bolscevichi.

Questi ultimi, gratificati di un appellativo che in lingua russa significa maggioritari in riferimento ai menscevichi, minoritari, che ancora optavano per una via riformista al socialismo (classificazione che ritraeva le rispettive posizioni al fatidico congresso del loro partito nel 1905), erano figli della nuova ideologia che si stava affermando tra le classi popolari a partire dalla metà dell’Ottocento.

Karl Marx

Uno spettro si aggira per l’Europa, aveva scritto Karl Marx nel suo Manifesto del Partito Comunista, pubblicato nel 1848. Il filosofo tedesco aveva inteso dare una sistematicità scientifica al suo pensiero, filiazione dell’hegelismo rivisitato in salsa popolare. La storia, diceva Marx, era fatta dal maturare di nuove condizioni economiche. La borghesia, nata come classe sociale dalla Rivoluzione Francese del 1789, stava perdendo il controllo dei mezzi di produzione. Destinati inesorabilmente a passare in mano al popolo, al Quarto Stato, quella immensa classe sociale fino ad allora ignorata dall’Illuminismo e dai suoi derivati.

Il Capitale, l’opera con cui Marx dette sistemazione scientifica alla sua filosofia, fu pubblicato lo stesso anno in cui la Russia cedeva agli Stati Uniti il territorio dell’Alaska. Mai e poi mai Marx, convinto che la sua rivoluzione comunista avrebbe avuto luogo a partire dai paesi più sviluppati industrialmente parlando per estendersi poi a quelli meno avanzati, si sarebbe immaginato che proprio il paese più arretrato, quello che il continente europeo stentava a considerare come facente parte dei propri confini e più per motivi culturali ed economici che geografici, avrebbe dato una chance pratica alla sua dottrina, diventando il primo paese al mondo in cui il Sole dell’Avvenire si sarebbe manifestato.

In Russia, comunista si traduceva dunque con bolscevico. Il partito comunista russo si era distinto fino al 1917 soprattutto per essere una vittima prediletta dell’Ochrana, la polizia zarista, che aveva spostato la sua attenzione sui bolscevichi ritenendoli giustamente più pericolosi dei vecchi anarchici. Nella primavera del 1917, mentre a San Pietroburgo e Mosca terminava un reich altrettanto millenario di quello che agonizzava a Berlino e Vienna, Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin era un uomo che viveva in esilio in Svizzera, senza prospettive né futuro. La situazione era destinata a cambiare rapidamente.

Lenin arringa il Soviet di San Pietroburgo

Kerenskij non aveva le risorse per cavalcare la tigre, la cui furia stava montando dentro e fuori i Soviet. Il generale Kornilov attuò a fine estate un tentativo disperato e approssimativo di restaurazione dell’ancien regime, ottenendo soltanto di screditare se stesso e lo stesso Kerenskij. A quel tempo, Lenin era già rientrato in Russia, con la complicità della Germania del Kaiser evidentemente interessata a favorire tutto ciò che avrebbe potuto eliminarle il fronte sul fianco orientale. Alla stazione Finlandia di San Pietroburgo, Lenin era stato accolto come un eroe, e malgrado fosse stato costretto a passare l’estate del 1917 ancora come un cospiratore braccato dalla polizia, quando a ottobre – novembre per il resto di quel mondo in guerra – risuonò l’ora della rivolta definitiva lui ed il suo compagno Lev Davidovič Bronštejn detto Trockij erano lì. Pronti a cambiare per sempre la storia del mondo.

Nella notte tra il 6 ed il 7 novembre 1917, subito dopo il colpo di cannone sparato dal leggendario incrociatore Aurora, il popolo della Russia in divisa da soldato, marinaio, contadino, operaio, organizzato dai Soviet nelle Guardie Rosse, cominciò quei dieci giorni che sconvolsero il mondo, secondo la celebre definizione del giornalista americano John Reed, assaltando il Palazzo d’Inverno, le Tuileries zariste. Non esisteva più uno Czar, ma esisteva ancora un mondo che non riusciva ad immaginare, a capacitarsi di essere alla fine. E che incontrò la sua fine, appunto, con sorprendente rapidità.

L’assalto al Palazzo d’Inverno

Il paese più grande del mondo, uno dei più popolati ed anche più arretrati all’epoca, cadde nelle mani dei bolscevichi, o comunisti come si chiamarono da allora, con sorprendente, irrisoria rapidità. Kerenskij fuggì all’estero, prendendo il posto di Lenin in esilio mentre Lenin prendeva il suo alla guida del primo paese socialista della storia.

Il resto è noto. La pace di Brest Litovsk nel marzo del 1918 tenne fede all’ortodossia comunista che chiamava fuori la Russia dalla guerra capitalista ed imperialista per eccellenza, e per poco non ebbe l’effetto di provocare lo spostamento definitivo dell’ago della bilancia dalla Triplice Intesa agli Imperi Centrali.

Ma fu un effetto illusorio. Vienna e Berlino erano ormai capitali del nulla, come lo era stata Mosca. Crollarono un anno dopo, aprendosi al mondo nuovo ed agli stati nazionali che sostituirono gli imperi. E scoprendo di non aver tempo di festeggiare o di commiserarsi, perché ai vecchi nemici se ne erano sostituiti subito di nuovi.

Lev Davidovič Bronštejn detto Trockij

Uno spettro si aggirava nuovamente per l’Europa, all’alba di quel 1919, primo anno del dopoguerra. Si chiamava appunto comunismo, o bolscevismo. Per due anni le Guardie Bianche sostenute dalle potenze vincitrici della Grande Guerra cercarono di opporsi a quelle Rosse, nel tentativo velleitario di riportare indietro l’orologio non solo della Russia. Lenin e i Soviet vinsero la loro prima guerra patriottica, aiutati non poco peraltro dal sostegno di classi lavoratrici che nei paesi aggressori cominciavano ad agitarsi, vedendo il Sole dell’Avvenire più vicino e cominciando a percepire la Russia come il suo nuovo, incredibile bagliore.

Dall’Italia del Biennio Rosso alla Germania degli Spartachisti, in quel mondo più progredito economicamente si diffuse il terrore della rivoluzione comunista, così come le armate di Bonaparte avevano diffuso il terrore della rivoluzione borghese alla fine del Settecento. Dalla Russia, che stava trasformandosi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche dandosi la prima costituzione dichiaratamente socialista della storia, giungevano notizie tragiche, agghiaccianti. La famiglia reale sterminata ad Ekaterinburg, il 17 luglio 1918, il mito della principessa superstite Anastasia che sembrava alimentare quello della possibilità di un arresto dell’orologio della storia, gli orrori della guerra civile tra bianchi e rossi, le notizie degli stermini, delle espropriazioni, di un mondo incomprensibilmente e irrimediabilmente sottosopra.

Il comunismo arrivò in Europa Occidentale ammantato di una leggenda nera, sanguinosa, terribile. In risposta, l’Europa occidentale si buttò tra le braccia di un totalitarismo di destra, mentre in URSS prendeva piede quello di sinistra, con Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin che alla morte di Lenin nel 1924 emergeva ben presto come il suo più accreditato successore, ed anche il più spietato.

Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin

Il comunismo che il mondo avrebbe conosciuto per i 70 anni a venire sarebbe stato quello forgiatosi negli orrori della rivoluzione bolscevica e temprato dai successivi orrori di Stalin, della Grande Guerra Patriottica (per noi la Seconda Guerra Mondiale combattuta contro i Nazisti di Hitler), della ancora più spietata e atroce – se possibile – Guerra Fredda combattuta tra il Mondo occidentale e quello comunista all’indomani della vittoria sui tedeschi ed al calare tra Ovest ed Est della Cortina di Ferro.

Ma queste sono altre storie. Tante altre storie, vissute in tutto il mondo, attraverso quei cento anni cominciati in quei dieci giorni di novembre del 1917.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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