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In nome del popolo italiano?

Succede oramai praticamente ogni volta che il nostro sistema giudiziario produce una sentenza di una qualche importanza. Se non è il merito a far discutere, sono le coincidenze temporali. Se non è la Corte di Cassazione (che qualcuno anni fa, ai tempi del giudice Carnevale soprannominato l’ammazzasentenze, definì in maniera sicuramente suggestiva il porto delle nebbie, intendendo con ciò indicare che al suo interno la giustizia si perdeva, spesso e volentieri), sono gli altri gradi di giudizio, ciascuno secondo la sua competenza e, verrebbe fatto di dire, il proprio genio.

Così, mentre la magistratura inquirente apre un fascicolo a proposito di Paolo Savona, ministro sofferto (soprattutto dal Presidente della Repubblica e dall’opposizione parlamentare) degli affari europei, per fatti presunti commessi quando era al vertice di Unicredit (si parla del 2013 come data più recente, il tribunale di Campobasso competente parla di atto dovuto, ma è la tempistica a lasciare francamente perplessi), quella giudicante risponde con un provvedimento destinato a creare per forza di cose ancora più imbarazzo al governo in carica. La Corte di Cassazione (già alla ribalta in questi giorni per la sentenza secondo cui non costituisce aggravante del reato stuprare una donna approfittando del suo stato di ubriachezza) conferma definitivamente l’obbligo in solido per la Lega di Salvini di restituire allo Stato i 49 milioni di euro imputati alla gestione, o forse è il caso di dire alla malversazione Bossi e per i quali il senatur è stato condannato.

Se la memoria non ci inganna, per le malversazioni di Lusi tesoriere della Margherita fu adottato un principio di non responsabilità oggettiva, e il partito di Rutelli si salvò. Andando più indietro, all’epoca di Mani Pulite i partiti si salvarono tutti, scaricando sui rispettivi tesorieri (come il celebre Severino Citaristi della DC, che in quei giorni tremò assai più di Forlani & c.) le proprie responsabilità gestionali. Caso estremo quel partito comunista a cui il silenzio del compagno G, Primo Greganti, valse un salvacondotto per la Seconda Repubblica con la nuova identità di PDS.

Per la Lega no, il principio non vale. E la sentenza uscita a ridosso della campagna elettorale del marzo scorso in cui la Seconda Repubblica si giocava un cambio di maggioranza epocale proprio con la Lega di Salvini in pole position è stata confermata pochi giorni fa, con Salvini nel frattempo insediato al Ministero dell’Interno e subito nel mirino di una campagna mediatica avversa come mai si era visto prima. Coincidenze.

La deposizione al processo di Palermo dell'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

La deposizione al processo di Palermo dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Ma il provvedimento più eclatante, quello che lascia perplessi oltre ogni dire, è l’ultimo in ordine di tempo. La Corte d’Assise di Palermo sceglie il giorno 19 luglio per depositare e rendere pubbliche le motivazioni della sentenza dell’aprile scorso, con la quale, tra gli altri, una serie di funzionari dello Stato sono stati riconosciuti colpevoli di aver condotto una trattativa con la criminalità organizzata, leggasi Mafia corleonese, nel periodo compreso tra le stragi di Capaci e Via d’Amelio e la cattura del Capo dei Capi, Totò Riina. Il giorno 19 è giustappunto l’anniversario dell’attentato al giudice Borsellino. E allora?

E allora a voler credere alle coincidenze, tutto bene. Ma è sempre più difficile farlo, soprattutto dopo aver preso visione delle oltre 5.000 pagine del documento. Che rafforzano le sensazioni iniziali lasciate al cittadino comune. I teoremi in base ai quali i giudici di Palermo hanno emesso le loro condanne ci sono tutti, a cominciare da quello principale che vuole Silvio Berlusconi referente della Mafia fin dalla sua discesa in campo nel 1994. Per quanto riguarda le prove, il discorso è diverso. Neanche una che convinca fino in fondo. Neanche una che faccia accettare l’idea che i Carabinieri del Ros – comandati da quel generale Mori che all’epoca era colonnello e diretto superiore del capitano Ultimo, l’uomo che arrestò Totò Riina – invece che una delle strutture di eccellenza di un’Arma di eccellenza che da allora più che mai ci siamo abituati a considerare quanto di meglio le istituzioni italiane avessero da offrire ai propri cittadini fossero in realtà strutture in qualche modo deviate, capaci di abbassarsi a venire a patti con il nemico numero uno di quello Stato che avevano giurato di difendere. Capaci di trattare come da cosca a cosca. Da potentato a potentato.

No, ci dispiace. Quelle 5.000 pagine non convincono. Ne bastavano molte meno, a condizione che avessero contenuto qualche prova più circostanziata (di quelle invocate più o meno da tutti i media, con eccezione praticamente del solo Marco Travaglio che da primo della classe si crogiola nel suo io l’avevo detto). E soprattutto, quella data del 19 luglio stona. Eccome se stona. Non vorremmo che l’ondata emotiva inevitabilmente prodotta dalla rievocazione del sacrificio civile di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta dovesse servire a coprire in qualche modo le lacune di un teorema che – ci auguriamo vivamente in quanto cittadini italiani – in secondo grado di giudizio dovrà essere dimostrato con uno svolgimento più sostanzioso ed esatto.

Tutti in piedi: la Corte d'Assise di Palermo pronuncia la sentenza

Tutti in piedi: la Corte d’Assise di Palermo pronuncia la sentenza

Parliamoci molto chiaramente. Se le nostre istituzioni fossero ricorse ad espedienti tattici in quell’estate del 1992, considerando anche cosa c’era in gioco, possiamo in qualche modo accettarlo, visto che il risultato fu la cattura del boss e la fine delle stragi. Se qualcuno sostiene che invece si trattò di una cosa ben diversa, un riconoscimento da pari a pari tra lo Stato e la Mafia, una loro osmosi, è pregato di dimostrarlo con prove certe, scrivendo meno e convincendo di più.

Non aggiungiamo altri commenti, per rispetto ad una Giustizia come entità e valore assai più importante di chi la esercita. Semmai il solito quesito: sono questi il sistema giudiziario e la magistratura che vogliamo?

Agli italiani l’ardua risposta.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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