Diario Viola Fiorentina

Storia della Fiorentina – 38. Il violino di Gilardino

Nella foto, la caratteristica maniera di Alberto Gilardino di festeggiare un gol segnato

C’era una volta una squadra di calcio che si chiamava Fiorentina, e che attraverso una lunga storia e tante vicissitudini era arrivata ad immedesimarsi in modo pressoché totale con la città che rappresentava, Firenze.

Per oltre ottant’anni, i fiorentini erano stati – praticamente senza eccezione – tifosi della Fiorentina. All’unanimità, contro tutto e contro tutti. E chi aveva posseduto la squadra di Firenze aveva sempre dovuto fare i conti con questa realtà, una cittadinanza ed una tifoseria che si ricompattavano sempre e comunque a difesa di quella maglia viola, di quel labaro viola che avevano finito per rappresentare la città quanto e più del Gonfalone del Comune. Una cittadinanza ed una tifoseria che per quella maglia erano pronti a contestare un presidente con la stessa intensità con la quale fino al giorno prima l’avevano sostenuto.

Ne sapevano qualcosa i dodici proprietari che si erano alternati alla guida della società viola. Befani era stato costretto ad andarsene dopo che gli erano state negate modifiche statutarie che gli avrebbero consentito una ricapitalizzazione e l’avvio di un nuovo ciclo dopo quello del favoloso primo scudetto e della Coppa delle Coppe. Baglini era stato scoraggiato dalla contestazione nell’anno del rischio della retrocessione, il 1971, che aveva seguito quello del secondo scudetto, il 1969. A Ugolini i tifosi avevano mostrato poca riconoscenza per aver trattenuto a Firenze Antognoni, così come a Pontello non era stato perdonato di aver ceduto Baggio. A Cecchi Gori figlio non sarebbe stato perdonato il fallimento (per quanto pilotato da poteri forti e fortemente avversi), un trauma da cui buona parte dei fiorentini non si sarebbe più ripresa.

Al principio del nuovo secolo, la nuova proprietà dei Della Valle aveva beneficiato di una luna di miele lunghissima, favorita anche dalle avversità che essa aveva dovuto affrontare nei primi cinque anni di vita e contro le quali i fiorentini avevano fatto ancora una volta fronte comune. Alla fine di quel ciclo terribile cominciato in C2 e finito sopravvivendo a Calciopoli, davvero tutta Firenze stava con i Della Valle, come dichiaravano le magliette in voga in quegli anni, vendute un po’ dappertutto in città.

C’era una volta questa Fiorentina, sopravvissuta a tante ore di sconforto e a poche di vittoria, come recita il suo inno. E tutto faceva pensare che sarebbe stata così ancora per lungo tempo. Certo, i suoi patron quando ripetevano lo slogan male non fare paura non avere sembravano più convinti di quanto in realtà non fossero. In realtà Calciopoli aveva lasciato un segno indelebile in quegli imprenditori affacciatisi con spirito avventuroso allo strano mondo del calcio, i quali presi dall’entusiasmo la notte della promozione in A si erano gettati nella piscina del Franchi vestiti di tutto punto. Quell’entusiasmo era stato messo a dura prova negli anni successivi. Restavano gli investimenti fatti (nella squadra) e quelli da fare (nella Cittadella – Stadio) a tenerlo ancora in vita.

Corvino con Cognigni, l’uomo dei numeri

A ben vedere, nell’estate del 2008 i segnali di un cambiamento in arrivo però c’erano tutti. Corvino aveva ancora cordoni della borsa piuttosto laschi, ma aveva anche direttive precise di cominciare ad attuare una politica di risparmio – sulla quale vigilava implacabile l’uomo di fiducia della proprietà, il ragionier Mario Cognigni -, che di lì a poco avrebbe trovato la parola magica per definirsi: autofinanziamento.

E così, mentre Cesare Prandelli tra Folgaria e San Piero a Sieve preparava la squadra al preliminare di Champion’s League che l’avrebbe opposta alla metà di agosto allo Slavia Praga, Pantaleo Corvino si dava da fare da un lato per rinforzarla, dall’altro per rinforzare le casse societarie. E le due cose non sembrarono a prima vista del tutto compatibili.

Nella colonna degli acquisti c’erano due colpi: il primo veniva da Catania, dove si era messo in luce un terzino peruviano dal passo devastante e dal tiro micidiale, Juan Manuel Vargas. Il secondo da Milano, ed era più che un colpo un botto. Alberto Gilardino aveva fatto coppia in azzurro con Luca Toni al mondiale tedesco. Era un campione del mondo, ma in maglia rossonera non si era ambientato neanche un po’. Il Milan ce lo vendette al non modico prezzo di 15 milioni di euro, ma il giocatore li valeva tutti. Gli altri arrivi erano Felipe Melo, semisconosciuto centrale difensivo brasiliano dell’Almerìas, quel Luciano Zauri dalla Lazio che evocava cattivi ricordi, e Gianluca Comotto dal Torino. In prospettiva, veniva anche quotato molto l’acquisto di Stevan Jovetic, giovanissima promessa del calcio montenegrino prelevato dal Partizan di Belgrado per 4,5 milioni di euro.

Le partenze erano un po’ sofferte, come quella di Tomáš Ujfaluši verso l’Atletico Madrid, accettabili come quella di Fabio Liverani verso Palermo (aveva un degno sostituto nel giovane Riccardo Montolivo), scontate come quella di Christian Vieri (svincolato e non più ben visto dopo il rigore sbagliato contro i Rangers e la nonchalance ostentata subito dopo negli spogliatoi verso i compagni , che pare avesse provocato un mezzo tafferuglio), incomprensibili come quelle di Vandenborre e Lupoli che pochi mesi prima erano stati presentati come calciatori di sicuro avvenire.

Soffertissima fu soprattutto la voce che prese a circolare nei primi giorni di agosto secondo cui anche Adrian Mutu era destinato ad aggiungersi all’elenco dei partenti, direzione A.S. Roma, che ci avrebbe pagato per averlo oltre 20 milioni di euro. E qui si formarono le prime crepe in un ambiente fino a quel momento idilliaco. Alle perplessità dei tifosi si aggiunse clamorosamente quella del tecnico Prandelli, che dichiarò pubblicamente di non accettare di privarsi del suo fuoriclasse a pochi giorni dal preliminare di Coppa e senza adeguata sostituzione.

Per la prima volta si crearono due fronti opposti, società da una parte, tecnico dall’altra. Per la prima volta la tifoseria si divise in due, e allora la parte più consistente si schierò con Prandelli. Mutu rimase a Firenze, e la sera della prima con lo Slavia segnò anche uno splendido gol su punizione che si sarebbe rivelato determinante per il passaggio del turno. Corvinò masticò amaro, e probabilmente con lui anche qualcun altro dei quadri societari. Ma l’incidente sembrò sul momento destinato ad esaurirsi lì, mentre cominciava una stagione che prometteva grandi soddisfazioni.

Il campionato riservò subito una notte magica. Il Gila si presentò al suo nuovo pubblico segnando al 90° il gol che valeva il pareggio contro la Juventus. Un biglietto da visita niente male per il nuovo beniamino dei fiorentini. MutuGila prometteva bene come coppia, sui livelli di MutuToni. La Fiorentina proseguì con una sconfitta a Napoli malgrado il vantaggio iniziale, e poi con una serie di risultati altalenanti, con le vittorie tuttavia che superavano di gran lunga le sconfitte.

Pessima la partecipazione alla Coppa Italia, eliminata al primo turno (casalingo) da un non trascendentale Torino che in campionato aveva regolato 4-1 a domicilio. Durissimo lo scotto da pagare per il noviziato in Champion’s League. La Fiorentina venne eliminata nella fase a gironi dal Lione di Benzema e dal Bayern Monaco in cui non giocava il neo campione di Germania e capocannoniere tedesco Luca Toni, perché infortunato. Classificatasi terza, la squadra viola retrocesse in Europa League.

Il resto della stagione fu un testa a testa con il Genoa per agganciare il quarto posto che dava diritto alla Champion’s dell’anno successivo. La squadra ligure era di proprietà di quel Preziosi che aveva conteso a suo tempo la Fiorentina ai Della Valle, ed il confronto si era caricato di motivi extra-calcistici. Il duello sembrò ad una svolta a metà febbraio, quando la Fiorentina andò a Marassi. I rossoblu sembrarono travolgerla, dopo un’ora di gioco stavano 3-0. Poi cominciò l’Adrian Mutu Show. Il rumeno fece una tripletta, il terzo gol – splendido, un tiro al volo rasoterra dal limite dell’area in girata – segnato al 93°.

L’incontenibile gioia di Mutu dopo il 3-3 di Genova

Eliminata anche dalla Europa League nel doppio confronto con l’Ajax che passò a Firenze, la Fiorentina si concentrò sul mantenimento della quarta posizione che ad una giornata dalla fine sembrava addirittura poter essere incrementata, ai danni del Milan che veniva a concludere la stagione al Franchi. La partita finì 2-0 per i rossoneri, la Fiorentina perse il diritto di accesso alla Champion’s senza disputare eliminatorie, ma quel giorno guadagnò molto in termini di immagine.

A Firenze concludeva la sua splendida carriera un monumento del calcio italiano, Paolo Maldini. La domenica precedente era stato contestato dalla sua curva, a San Siro, per alcune sue prese di posizione contro il tifo organizzato rossonero. Quello viola, al Franchi, gli dedicò una standing ovation memorabile, ripagandolo e dimostrando una sportività che quel giorno fece premio su tutto.

Un altro campionato portato a termine brillantemente, un quarto posto che si aggiungeva a quelli dei tre anni precedenti (penalità e declassamenti a parte) e che sembrava baciato dal sole che quel giorno splendeva sopra uno stadio che aveva soltanto voglia di festeggiare. Sull’impero dei Della Valle e sulla panchina di Prandelli sembrava proprio che quel sole non sarebbe mai tramontato.

In verità, sul cielo di Campo di Marte si stavano addensando nubi che di lì a poco sarebbero diventate pesanti. Ancora più avanti, nerissime.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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