E’ uno di quegli anni che fanno da spartiacque storico. Ce n’è uno per secolo, mediamente. Il 1789, il 1848 furono gli anni in cui un regime così antico da aver perso la memoria della propria nascita incontrò la volontà popolare e trovò contro di essa la sua fine. Non ci fu barba di diritto divino che potesse salvarlo.
Nel ventesimo secolo, c’erano state tante rivoluzioni e addirittura due guerre mondiali. Il mondo era cambiato più volte, e in modo talmente violento da far temere per la propria stessa sopravvivenza. Eppure, più dell’Yprite che fece la sua comparsa sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, più del fungo atomico che chiuse i campi di battaglia della seconda, fu il 1968 a cambiare in profondità una società che era sopravvissuta sostanzialmente uguale a se stessa fino a quel momento.
Regole che sembravano immutabili furono spazzate via in un baleno. Convenzioni sociali a volte pesantissime furono messe da parte con facilità apparentemente irrisoria. Non era così, non lo sarebbe stato nemmeno negli anni a venire, in realtà. Ma quando gli studenti salirono sulle barricate del Quartiere Latino a Parigi nel maggio del 1968, nessuno poteva immaginare le conseguenze. Non si trattava di semplici scontri violenti con la polizia, come a Berkeley in California pochi anni prima o come a Valle Giulia a Roma in Italia pochi mesi prima. Quella volta, c’era in gioco molto di più.
Quell’anno, sembrò che il vento del cambiamento non risparmiasse nulla e nessuno. A Praga, da gennaio, c’era un regime che continuava a chiamarsi comunista ma che in realtà era liberale: quello di Alexander Dubcek, che rinnovò il sogno del comunismo riformabile già vissuto in Ungheria dodici anni prima, e per stroncare il quale ed evitarne l’influenza contagiosa nel resto del Patto di Varsavia i comunisti sovietici dovettero mostrare al mondo il loro lato peggiore, più disumano: quello dei carri armati con la stella rossa a giro per la Cecoslovacchia in mondovisione. Un danno comunque irreparabile.
A Parigi, le barricate attorno alla Sorbona misero fine all’epopea leggendaria di Charles De Gaulle, e in ultima analisi di tutta la sua generazione. L’uomo che aveva salvato l’onore della Francia contro i nazisti, non riuscì a salvare se stesso ed il proprio gouvernement contro gli studenti. La Quinta Repubblica perse il suo fondatore, la Francia perse le sue certezze, spazzate via assieme a quelle del resto d’Europa.
La fantasia salì al potere, anche se il tempo si sarebbe incaricato di mostrare come certe fantasie assomiglino piuttosto agli incubi, ai mostri generati da quel sonno della ragione di cui aveva parlato Bertolt Brecht, e che veniva riproposto nella storia umana a cadenze regolari. La libertà da ogni schema, da ogni regola, da ogni costrizione, avrebbe aperto la strada a nuove regole, schemi e costrizioni contro cui non esistevano apparentemente difese collaudate, anticorpi. Il terrorismo sarebbe venuto a ruota della fantasia libertaria, così come il Terrore era venuto a ruota delle buone intenzioni dei Giacobini alla fine del Settecento, dopo la presa della Bastiglia.
Ma tutto ciò era da venire. In quei giorni il mondo sembrava respirare – malgrado i fumogeni lanciati dalle varie polizie – un’aria di libertà quale non era mai esistita. Dalla cultura alla letteratura alla musica al cinema allo sport, tutto sembrò trasfigurato, più che stravolto. I capelli si allungavano, le barbe crescevano incolte, i pantaloni si allargavano in zampe di elefante. Il film del 1968 scorreva – e scorre tuttora di fronte agli occhi di chi se ne ricorda – come un capolavoro inedito.
I Beatles che diventano capelloni, prima di sciogliersi e di disperdersi nei rivoli di un rock sempre più duro. Tommy Smith che alza il pugno sinistro con il guanto nero, sbattendo in faccia al movimento olimpico ed al mondo intero la fine dell’illusione che lo sport sia un’isola felice e le Olimpiadi una tregua dai problemi quotidiani. Il Black Power usciva dal sogno di Martin Luther King – ucciso da poco dall’ennesimo misterioso sicario che pochi mesi dopo si sarebbe portato via anche Robert Kennedy, il fratello di JFK – e abbracciava la rabbia di Angela Davis e delle Pantere Nere. Tutto questo mentre i Vietcong scatenavano in Vietnam l’offensiva del Tet mettendo fine all’illusione americana di una guerra dai costi, dalle vittime e dagli obbiettivi contenuti. Mentre a My Lai e in altri sperduti villaggi del Sud Est asiatico l’America perdeva la sua stessa innocenza, e l’altra illusione che anche questa volta il suo esercito fosse fuori dai suoi confini a portare libertà a chi non ne aveva.
Fu l’anno in cui la più improbabile delle professioni, quella dei calciatori, trovò il suo sindacato, che rese il nome di Sergio Campana famoso quanto quello di Gianni Rivera. Fu l’anno in cui il calcio sembrò trovare nuovi padroni, o almeno andare incontro ad un’epoca senza padroni. La Fiorentina cominciò il campionato vendendo i suoi pezzi migliori al Cagliari. Erano due realtà lontane dal triangolo industriale che fino ad allora si era spartito gli scudetti, ma erano due realtà vincenti. I viola festeggiarono subito, i rossoblu l’anno dopo, consegnando alla leggenda dello sport le gesta di Rombo di Tuono, Gigi Riva, il più grande attaccante del dopoguerra. Fu anche l’anno in cui l’Italia vinse il suo primo e finora unico titolo europeo, prevalendo nella finale bis di Roma su quella Jugoslavia contro cui in qualsiasi disciplina aveva raccolto fino a quel momento pochi successi e poche soddisfazioni.
Fu l’anno in cui i visionari predissero un mondo più simile alla fantascienza, ma la fantascienza sembrò prendere per prima coscienza della possibilità che non tutto sarebbe andato necessariamente per il verso giusto. Quell’anno uscì sugli schermi il Pianeta delle Scimmie, tratto da Franklin J. Schaffner dal romanzo di Pierre Boulle, con il volto di Charlton Heston a impersonificare lo sgomento della razza umana di fronte al proprio destino, al momento di rendersi conto di non essere l’unica specie intelligente sulla Terra, o almeno non quella più intelligente.
Fu l’anno in cui la fantasia sognò il potere, ma il potere era già più lesto a riorganizzarsi. Un altro dei misteriosi sicari di cui furono pieni gli anni sessanta sparò a Rudy Dutschke, il leader degli studenti berlinesi, l’omologo del francese Daniel Cohn-Bendit. La Germania Ovest era la frontiera del mondo e lì non c’era spazio né per la fantasia né per la contestazione.
A Città del Messico il mondo avrebbe invece voluto celebrare una nuova tregua olimpica, da doppiare due anni dopo con i mondiali di calcio. Ma i messicani la pensavano diversamente, e colsero l’occasione delle telecamere internazionali per rivoltarsi contro il proprio governo, uno dei tanti governi repressivi di quella enorme repubblica della banane che era ed è il Sudamerica. La polizia locale reagì come tutte le polizie delle banane, aprendo il fuoco sui manifestanti. A Tlatecolco, in Piazza delle Tre Culture, andò in scena uno dei massacri di quell’anno. I morti furono più di cento, fra i feriti gravi che si salvarono per miracolo c’era Oriana Fallaci, all’epoca giornalista di frontiera del Corriere della Sera, che andava in giro per il mondo a raccontare tutto ciò che non funzionava, ascoltata allora dai progressisti del nostro paese, già peraltro convinti che tutto ciò che non andava fosse colpa del Grande Satana Americano.
Ad Atene, i colonnelli condannarono a morte Alekos Panagoulis. La sentenza fu sospesa grazie alle pressioni dell’opinione pubblica internazionale, e Alekos avrebbe fatto in tempo a diventare l’Uomo della vita di Oriana, prima che i colonnelli lo raggiungessero comunque con i loro sicari.
A novembre, gli Stati Uniti stanchi di un decennio di lotte civili e di guerre senza prospettiva elessero presidente Richard Nixon, perché mettesse fine alle loro angosce a costo di rinunciare ai loro sogni. In Italia il governo era ancora nominalmente di centrosinistra, ma se mai aveva avuto come supporto una carica ideale non sarebbe stato certo il democristiano Mariano Rumor, nuovo presidente del consiglio, a poterla incarnare e prolungare.
L’anno che avrebbe cambiato il mondo al di là di ogni possibile immaginazione si chiuse in Italia con la sentenza del 20 dicembre della Corte Costituzionale che dichiarò illegittimi i due commi dell’articolo 559 del codice penale che discriminavano tra uomo e donna in caso di adulterio. Nessuno ci fece gran caso sul momento, ma fu forse la più grande delle rivoluzioni avviate nei dodici mesi dell’anno di grazia 1968. Non scoppiarono bombe, nessuno salì sulle barricate, ma le donne si tolsero semplicemente il velo, quel particolare burkha che anche la nostra religione aveva loro imposto fino a quel momento, tramite anche il braccio secolare di un ordinamento giuridico che di colpo si rese conto di essere indietro rispetto a tutto, anche ad una Costituzione promulgata vent’anni prima (di lì a poco sarebbero stati approvati il divorzio ed il decentramento istituzionale che avrebbe dato vita alle regioni).
E come sempre succede, furono le piccole rivoluzioni quotidiane che cambiarono in modo più decisivo il nostro panorama sociale. Nel Belice la terra tremò per effetto di un altro dei terremoti e delle calamità naturali che avrebbero scandito la storia dell’Italia contemporanea, dopo l’alluvione del Polesine e quella di Firenze. Capi di stato e di governo in visita ad esprimere inutili cordoglio e partecipazione istituzionale d’improvviso non bastarono più. Ci sarebbe voluta presto anche una protezione civile, degna di un paese civile di fatto e non solo di nome.
Il 27 dicembre 1968 la missione spaziale Apollo 8 rientrò infine sulla Terra, dopo aver effettuato 10 orbite intorno alla Luna ed aver inviato, il giorno della vigilia di Natale, le prime immagini del nostro pianeta viste dal lato del satellite. D’improvviso, chi voleva cambiare questo nostro piccolo mondo antico (e quell’anno a giro ce n’erano tanti), potè almeno vedere come era fatto.
Lascia un commento