Ombre Rosse

Il replicante

E’ l’anno in cui, nella fantasia di Ridley Scott che noi ingenui spettatori del 1982 ritenemmo per certi aspetti un po’ eccessiva, avrebbe dovuto ambientarsi l’inizio della battaglia finale tra uomini e robot. I cosiddetti replicanti, capaci di emulare in tutto e per tutto la vita umana, e di sopravvivere meglio di essa in un mondo ormai corrotto, contaminato, compromesso dall’inquinamento e dalla degenerazione economica e sociale.

Ne parliamo in altra parte del giornale, ed ognuno giudichi secondo coscienza e sensibilità se la realtà ha superato o meno la fantasia, allo scoccare del fatidico 2019. Per quello che è dato vedere, il cielo ci riserva ancora sprazzi di sole e di sereno sulle nostre teste, bancarelle cinesi ai quattro angoli delle nostre strade vendono ormai di tutto, ma non ancora occhi di plastica di ricambio. Esseri umani di ogni colore ed abitudine si mescolano apparentemente integrandosi ma in realtà alienandosi sempre più l’uno dall’altro. Governi e polizie cercano di combattere l’inevitabile, sotto gli occhi indifferenti di multinazionali e lobbies affaristiche internazionali preoccupate ormai soltanto di massimizzare il loro profitto. E i replicanti – per quanto ne sappiamo – ormai potrebbero essere già tra noi.

Gli androidi chissà che cosa sognano, le pecore elettriche che aveva immaginato Philip K. Dick, o l’iPhone di ultima generazione come le loro controparti umane? Forse, in attesa di qualche sviluppo inatteso che ogni epoca della storia umana immancabilmente – e fortunatamente – riserva, al momento non stanno sognando niente. Si accontentano, come noi, di smaltire l’ingente cenone di San Silvestro che segue a quello natalizio, mentre in un angolo della sala da pranzo la televisione trasmette immagini e voci che parlano di una realtà vicina eppure lontana. Voci ascoltate distrattamente, purtroppo e/o per fortuna, mentre mente e corpo seguono convintamente o meccanicamente altri rituali. Quello del cibo da portare alla bocca, del regalo da scartare, della realtà esterna da obliare, in qualche modo.

I nostri replicanti, ancora, non sono coloro che imitano la nostra vita grazie alla tecnologia. Sono coloro che vorrebbero condizionarla perpetuando, replicando appunto, discorsi e atteggiamenti invecchiati con noi e con un mondo che – al di là delle apparenze e dei gadgets acquistati nei negozi o su Amazon – ha smesso di rispondere alle nostre esigenze da tempo.

Simbolo di questa realtà virtuale che, come in Matrix, surroga e si sovrappone a quella reale a nostra colpevole o incolpevole insaputa, è probabilmente il discorso del presidente della repubblica. Quell’appuntamento immancabile con un piccolo mondo antico, una politica d’altri tempi, una convenzione sociale che si perpetuano, e che si replica a cadenza periodica riproponendo lo spettacolo di gente – noi stessi, peraltro – che vive ormai nel futuro mantenendo in testa pensieri del passato.

Di questi discorsi, Sergio Mattarella è al suo quarto, da quando fu eletto al Quirinale dal Partito Democratico allora saldamente nelle mani – nelle grinfie, preferiscono dire ormai i più – di Matteo Renzi e dei suoi leopoldini, convinti che servisse uno dei loro nella stanza dove si decide chi va nell’altra stanza, quella dei bottoni. Perché, al bisogno che presto o tardi si sarebbe verificato, al Quirinale ci fosse chi – come diceva il suo conterraneo Giuseppe Tomasi di Lampedusa – avesse ben chiaro che perché nulla sostanzialmente cambiasse tutto doveva all’apparenza cambiare.

Come il Gattopardo principe di Salina, Sergio Mattarella è l’esponente di una cultura regionale che è tra quelle che meglio si sono attagliate e adattate a quella vecchia politica che permea ed ispira ogni  discorso del presidente, ogni sua presa di posizione pubblica.

L’Italia è alle prese con una crisi di identità che determina a monte la crisi politica e quella economica che stanno mettendo in ginocchio il paese da anni, ma il suo presidente è tutto europeismo, solidarismo, migrantismo. I sessanta milioni di italiani nati nella penisola non sanno più che augurarsi, per sopravvivere ad un altro anno in cui i poteri forti (tra cui quelli che hanno messo al Quirinale l’uomo che all’ora di cena di San Silvestro rivolge a reti unificate alla nazione l’ennesimo discorso) faranno di tutto perché non sopravviva più nemmeno un’idea di Italia. Ed il loro presidente a chi rivolge i suoi auguri? A quei cinque milioni di stranieri che sono qui a vario titolo, tra i quali si possono nominare ovviamente soltanto quelli ammessi dal codice. Dimenticando con nonchalance gli altri, quelli illegali che hanno fatto e fanno vittime. Come per esempio quelle due ragazze italiane, Desirée e Pamela, che si erano appena affacciate alla vita e che se la sono vista portar via da risorse venute da quell’estero a cui sempre secondo il discorso in questione dovremmo aprirci ogni giorno di più, indiscriminatamente, senza difese.

Mattarella parla, apparentemente imperturbabile. Lui viene da una terra dove molti apprezzano l’altro detto: meglio comandare che fottere. E da un partito, da un retroterra politico che è il punto terminale di una tradizione secondo cui per comandare è lecito combinarne di tutti i colori. E’ lecito, ammissibile, giustificabile, soltanto il potere. I mezzi seguono al fine, nella Toscana di Machiavelli e Renzi come nella Sicilia di Mattarella. Non è questione di regionalismo, si badi bene. Dovunque, secondo la filosofia che sta alla base del discorso del presidente, della volontà popolare – almeno intesa nel senso che la intendeva Montesquieu, per stare ad un autore che Mattarella cita spesso – è peraltro lecito fottersene. Si ritorna sempre lì, comandare e fottere.

E’ lecito al presidente che la Costituzione voleva senza poteri effettivi ergersi a capo di fatto di un esecutivo che il popolo avrebbe già eletto legittimamente per conto proprio, ma a cui l’uomo del Quirinale si pone in aperto antagonismo. L’indirizzo politico abiterebbe a Palazzo Chigi, ma quando Mattarella dice cose diverse e contrastanti da quelle che dice Conte nessuno pare scandalizzarsi. I giornali fanno mostra di accodarsi, e vanno capiti. Non sia mai che qualcuno perda il preziosissimo finanziamento pubblico. Una smorfia del volto altrimenti imperscrutabile di Mattarella sarebbe peggio, da questo punto di vista, di un discorso esplicito di Di Maio. Non sia mai.

L’anno che sta arrivando, diversamente da quanto cantava il povero Lucio Dalla, stavolta non passerà tra un anno. Ma piutosto, se Dio vuole, tra pochi mesi. Al discorso del presidente ascoltato distrattamente al momento di mettersi a tavola per San Silvestro, i suoi concittadini potranno rispondere tra marzo e maggio con le varie consultazioni elettorali che culmineranno nelle elezioni europee.

Come nel finale di Blade Runner, confidiamo che dopo una lunga notte offuscata da un cielo tenebroso e ammorbato possa apparire finalmente il sereno, prima dei titoli di coda. E che non giunga soltanto ad illuminare la strada ad una fuga. I nostri ragazzi hanno diritto a rimanere qui, dove li abbiamo fatti nascere. Dove siamo nati anche noi, ed avremmo il diritto di morire decentemente, quando sarà l’ora. Magari non a causa di malattie strane giunte da chissà dove, o assumendo farmaci approvati da chissà chi, o per i tagli alla sanità, agli stipendi ed alle pensioni già al limite dell’indigenza. Prima gli italiani dovrebbe essere il primo degli italiani a dirlo per primo. Risparmiandoci possibilmente il resto.

E questa la miglior risposta al discorso del presidente. E l’augurio che modestamente facciamo al nostro paese ed al nostro popolo.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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