Un giovane Giulio Andreotti, anno di grazia 1955
Avrebbe più di 100 anni oggi Giulio Andreotti, uno degli uomini chiave della Storia d’Italia del XX secolo, sia quella pubblica e conosciuta che quella segreta, o secretata, che chissà quando e se sarà mai conosciuta fino in fondo.
L’uomo più potente della storia della Prima Repubblica si era spento alle 12,25 del 6 maggio 2013 nella sua abitazione romana, senza clamore così come aveva vissuto per 94 anni a partire dal 14 gennaio del 1919, malgrado per buona parte della sua vita si fosse trovato al centro degli eventi più importanti di quella storia, spesso e volentieri autore e/o partecipe di essi e ancor più spesso accreditato dall’opinione pubblica come responsabile, come deus ex machina di quegli eventi. Di tutti gli eventi.
Era l’ultimo sopravvissuto dei Padri Costituenti. La carriera politica di Giulio Andreotti era nata insieme alla Repubblica Italiana. Il giovane studente di diritto che si stava facendo rapidamente un nome nella Federazione Universitaria dei Cattolici Italiani e che trascorreva molto del suo tempo presso la Biblioteca Vaticana vi aveva fatto un paio di incontri importanti: Giovanni Batista Montini, Segretario di Stato di Papa Pio XII e destinato a diventare suo successore come Paolo VI, e Alcide De Gasperi, all’epoca uomo politico in disgrazia presso il regime fascista e che approfittava dell’ospitalità della Curia Vaticana, in seguito destinato ad essere l’uomo della rinascita italiana, il leader carismatico della neonata Democrazia Cristiana nonché di una intera nazione che cercava di riconquistarsi un posto nel consesso delle nazioni civili.
Finita l’era De Gasperi, la sua personalità ed i successi già conseguiti lo posero come antagonista dei cosiddetti cavalli di razza, Amintore Fanfani e Aldo Moro, che avevano preso la leadership del partito tentando di spostarne il baricentro più a sinistra. La leggenda nera delle trame andreottiane cominciò allora, quando alla metà degli anni 50 fu ascritta alla responsabilità delle sue manovre la implicazione dell’enfant prodige democristiano Piero Piccioni nel Delitto Montesi (il primo scandalo pubblico dell’Italia repubblicana) e la sua caduta in disgrazia, che favorì il via libera alla nuova generazione: da una parte i Moro e i Fanfani, dall’altra gli Andreotti e i Dorotei, Colombo, Rumor, Taviani e tutti coloro che non vedevano di buon occhio aperture a sinistra.
A metà anni sessanta il primo incarico importante, il Ministero della Difesa, ed insieme nuove accuse di manovre oscure, allorché fu individuato come responsabile della distruzione dei documenti relativi al tentato golpe del generale De Lorenzo, il cosiddetto Piano Solo. I fascicoli in cui erano schedati più o meno tutti i politici italiani dell’epoca furono distrutti, come prevedeva la legge, ma misteriosamente delle copie giunsero in possesso della P2 di Licio Gelli, all’epoca non ancora scoperta, con le conseguenze che ognuno può immaginare. E grazie alla campagna di stampa dell’Espresso la colpa, la prima di una lunga serie, fu addossata a Giulio Andreotti, in collaborazione con un altro politico di fama e di cui la vox populi aveva già cominciato a chiacchierare pesantemente: Francesco Cossiga.
Nel 1972, negli anni della reazione al centrosinistra con i socialisti e dei primi contraccolpi sociali alla strategia della tensione che avvelenava la lotta politica italiana, Andreotti ricevette l’incarico del primo dei suoi sette governi. Fu in seguito di nuovo Ministro della Difesa e poi del Bilancio sotto Moro. Ancora accuse di favoreggiamento a terroristi neri, relativamente alla strage di Piazza Fontana, ancora proscioglimenti o non luogo a procedere. Finché nel 1976 l’avanzata del PCI arginata a stento dalla Democrazia Cristiana convinse Enrico Berlinguer e Aldo Moro, gli autori del compromesso storico, a dare nuova forma e nuova sostanza alla loro formula politica coinvolgendo i comunisti nell’area di governo nell’intento di stemperare le tensioni sociali e di dare nuovo impulso ad una fase riformista ritenuta più che mai necessaria e per la quale l’appoggio dei socialisti non era più sufficiente.
Per guidare questa operazione di governo con appoggio esterno comunista (la cosiddetta non sfiducia) fu scelto proprio Andreotti, secondo una tecnica di compensazione tipica della DC. Era un monocolore che si reggeva sull’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, eccezion fatta per il MSI di Giorgio Almirante, e sopravvisse fino al gennaio 1978. Ritenendo che bisognasse aumentare il coinvolgimento della sinistra comunista nell’azione governativa, Moro propose allora un nuovo esecutivo a cui tutti i partiti, PCI compreso, dessero stavolta non l’astensione ma un voto esplicito di fiducia. Era il governo che doveva essere presentato alla Camera la mattina del 16 marzo 1978, quando lo statista pugliese fu rapito dalle Brigate Rosse in Via Fani e la sua scorta massacrata. Il dramma spinse il Parlamento a votare rapidamente la fiducia al IV° governo Andreotti, che passò alla storia come di solidarietà nazionale.
Da Palazzo Chigi, Andreotti sposò la linea della fermezza e del rifiuto delle trattative con le BR, come del resto fecero tutte le forze politiche ad eccezione del PSI di Bettino Craxi e dei Radicali di Marco Pannella. Nei suoi memoriali dalla prigione del popolo, Aldo Moro ebbe delle parole durissime per Andreotti. Dopo il ritrovamento del suo cadavere a Via Caetani, la famiglia Moro mantenne tale atteggiamento, e rifiutò da allora in poi di avere a che fare con l’uomo che adesso guidava il partito che non aveva voluto salvare il suo congiunto.
Il dramma di Moro non impedì al governo Andreotti di conseguire importanti successi quale ad esempio la Riforma Sanitaria, quella legge 833 che a detta di tutti rimane una delle più avanzate di ogni tempo e di ogni luogo in materia. La richiesta da parte del PCI di avere maggior peso e coinvolgimento nella compagine governativa, unitamente all’assenza di un mediatore abile come Moro ed al mutato clima interno ed internazionale, portarono alla crisi del governo Andreotti ed alla fine dell’esperimento di solidarietà nazionale. Che fu seguito anche da una interruzione del cursus honorum andreottiano, per i veti sia di Berlinguer che di Craxi. Il quale ultimo ebbe a dire: «la vecchia volpe è finita finalmente in pellicceria».
La vecchia volpe, invece, aveva sette vite, e lo dimostrò prendendosi l’incarico di Ministro degli Esteri proprio nello storico governo Craxi nel 1983, e mantenendolo fino al 1989 anche nel successivo esecutivo a guida di Ciriaco De Mita. In quegli anni, egli svolse un ruolo di mediazione importante tra gli USA del dopo Reagan e l’URSS in cui cominciava a produrre i suoi effetti la Perestrojika di Michail Gorbaciov. Analogo ruolo si trovò a svolgere all’interno, allorché la rotta di collisione tra Craxi e De Mita lo portò a riavvicinarsi al leader socialista, a discapito del proprio segretario di partito.
Quando nel 1989 cadde il Muro di Berlino, Andreotti riprese a De Mita la Presidenza del Consiglio, e si distinse per la sua posizione eterodossa (ma col senno di poi profetica e rivalutabile) circa la riunificazione tedesca. Il politico romano andò controcorrente dichiarando senza mezzi termini che la Germania unita prima o poi avrebbe prodotto ciò che aveva sempre prodotto nella storia d’Europa: guai.
Mentre il Presidente della Repubblica Cossiga iniziava a tirare le picconate che avrebbero abbattuto la Prima Repubblica e Craxi tornava a rompere l’armonia ricreatasi e codificata nella celebre formula del C.A.F. (Craxi, Andreotti e Forlani), mentre esplodeva lo scandalo Gladio e si delineava un nuovo oscuro coinvolgimento del Presidente del Consiglio nelle trame nere di decenni di storia repubblicana, si arrivò all’anno terribile, quel 1992 che vide la fine del suo settimo governo e subito dopo il suo tentativo di accedere alla massima carica dello stato, succedendo proprio a quel Cossiga ex amico e adesso quasi rivale che tuttavia l’aveva nominato l’anno prima senatore a vita, assicurandogli senza saperlo un avvenire politico ed una immunità parlamentare che altrimenti sarebbero stati – come si vide poi – sicuramente compromessi.
La bomba che esplose a Capaci il 23 maggio 1992 non si portò via soltanto Giovanni Falcone, ma anche le ambizioni personali di Giulio Andreotti di ascesa al Quirinale, e della Prima Repubblica di sopravvivere. Al Colle salì Oscar Luigi Scalfaro, mentre un paese scosso da Mani Pulite e dalle stragi di Mafia assisteva alla fine di una classe politica, in primis di quella DC che da esattamente 50 anni l’aveva guidato senza contendenti. Quando essa si sciolse, ai primi del 1994, Andreotti aderì al Partito Popolare di Martinazzoli, ma la sua carriera politica attiva era finita. Fu quello il momento in cui la Procura di Palermo, passata sotto la guida di Giancarlo Caselli dopo la decimazione del pool di Antonino Caponnetto, ritenne opportuno presentare il conto al senatore a vita relativamente a quello di cui si sussurrava da tempo: le sue frequentazioni e presunte collaborazioni con Cosa Nostra, dal dopoguerra agli anni dei Corleonesi e di quel Totò Riina che era stato appena catturato dai Carabinieri del Capitano Ultimo.
Negli oltre dieci anni intercorsi tra l’avvio del procedimento giudiziario e la sentenza definitiva della Cassazione, la Procura di Palermo non riuscì a provare il diretto coinvolgimento nella criminalità organizzata di Andreotti, brillantemente difeso peraltro da una giovanissima avvocatessa destinata a grande fama, Giulia Bongiorno. La Corte si limitò a dichiarare prescritti i fatti antecedenti al 1980 (non luogo a procedere), mentre lo assolse per quelli successivi, addossandogli esclusivamente la responsabilità di incontri con personaggi scomodi, che se non costituivano di per sé reato certamente non alimentavano una accezione positiva della sua immagine.
Negli ultimi anni si era dedicato alla cura del suo sterminato archivio cartaceo nel suo studio a Piazza in Lucina a Roma, lasciato in eredità alla Fondazione Sturzo e da lui curato materialmente fino all’ultimo. E’ facile immaginare che adesso si tratti di uno dei tesori più importanti della Storia della Repubblica. Qualunque sia la verità, ed il peso che ciascuno vuole o vorrà darle, è certo che là dentro non si trova soltanto il contenuto degli scritti con cui per tutta la vita Giulio Andreotti ha alimentato la sua vena di autore letterario, anche gradevole e celebre per quel suo certo umorismo british-romanesco fatto di undestatement e di battute celeberrime come «il potere logora chi non ce l’ha». Là dentro si trova molto di più, si trova la Storia d’Italia, quella che conosciamo e quella che non conosceremo mai, quella che immaginiamo e quella che non possiamo e non potremo mai neanche lontanamente immaginare.
Giulio Andreotti alla fine si é presentato davanti ad un Giudice presso la cui giurisdizione niente va mai in prescrizione. L’unico Giudice che possiede la risposta all’interrogativo che riassunse per tutti a suo tempo Indro Montanelli: «delle due, l’una: o è il più grande, scaltro criminale di questo paese, perché l’ha sempre fatta franca; oppure è il più grande perseguitato della storia d’Italia».
Come fa dire Paolo Sorrentino ad Eugenio Scalfari nel film Il Divo: «allora Senatore Andreotti, le chiedo: tutte queste coincidenze sono frutto del caso o della volontà di Dio?»
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