Erano rimasti da soli, a fronteggiare il più spaventoso tra tutti i nemici che l’isola ai confini dell’Europa aveva avuto contro in tutta la sua storia. In tutta la storia dell’umanità, se è per questo. La Gran Bretagna sarebbe stata l’unica delle potenze coinvolte a combattere la seconda guerra mondiale dal primo all’ultimo giorno. Dal 1° settembre 1939, allorché l’aggressione di Hitler alla Polonia aveva fatto scattare il trattato di alleanza con Francia e Inghilterra, all’8 maggio 1945, il V-Day, il giorno della vittoria in Europa.
Gli inglesi, ed i loro cugini dei Dominions canadesi, australiani, neozelandesi, sudafricani, quei 2077 giorni di guerra se li sarebbero fatti tutti. Senza un lamento, senza un cedimento, seppur minimo. Dalla fine della battaglia di Francia all’inizio di quella di Inghilterra, in attesa che Pearl Harbor portasse al loro fianco gli Stati Uniti d’America e che Barbarossa costringesse lo zio Joe Stalin a più miti consigli, Albione aveva resistito. Standing alone, ridicolizzando con la Royal Air Force la Luftwaffe e qualsiasi tentativo di invasione via mare, ripetendo a se stessa quel mantra che con felice intuizione le aveva suggerito il suo Primo Ministro, Winston Churchill: we’ll never surrender, non ci arrenderemmo mai. Semplice, definitivo, perché come aveva spiegato sempre il Premier, senza vittoria l’Inghilterra non sarebbe sopravvissuta.
Quando la British Broadcasting Corporation (l’ente di radiotelecomunicazioni privato che dal 1922 aveva in concessione dal governo britannico la trasmissione dei programmi radiofonici in tutto il Regno Unito) aveva iniziato le sue trasmissioni destinate alle popolazioni d’Europa, probabilmente neanche immaginava di stare mettendo a punto una delle armi più efficaci che le sarebbero servite nel tremendo conflitto che sarebbe esploso di lì a poco. Erano i giorni di Monaco, la fine del settembre del 1938, quelli in cui Neville Chamberlain credette di avere assicurato la pace al suo tempo, ed invece aveva soltanto acconsentito a che Hitler si mangiasse la Cecoslovacchia, avvicinandosi pericolosamente ai confini degli stati che poi avrebbe aggredito tra il 1939 ed il 1941.
Il motto della BBC era: Nation shall speak peace unto Nation, la nazione parlerà di pace alla nazione. Era un lascito testamentario della Grande Guerra. Peccato che a quel punto spiravano nuovamente impetuosi venti di una guerra perfino peggiore. La Cassandra inascoltata fino a quel momento, Winston Churchill, stava diventando l’unico punto di riferimento per chi non voleva cedere ai nazisti. Un anno dopo, la BBC si sarebbe ritrovata d’improvviso con il compito di far sentire all’Europa sotto il tallone di ferro dei tedeschi la voce dell’Inghilterra che non aveva abbandonato la lotta, e attraverso di essa quella degli Stati Uniti che si stavano convincendo ad unirsi ad essa. L’unica voce che, a partire dal discorso del re più celebre di tutti i tempi, avrebbe parlato di sopravvivenza del mondo libero.
Le trasmissioni di Radio Londra, così si chiamava lo spazio destinato dalla BBC ai programmi destinati al continente, aumentarono progressivamente mano a mano che la propaganda e la trasmissione di informazioni belliche, a quel punto, prendevano piede. Le trasmissioni destinate all’Italia, in particolare, nel momento in cui Londra sperava ancora di tenere Roma fuori dalla guerra, ammontavano a circa quattro ore.
Quando i panzer della Wehrmacht travolsero la Francia rigettando le sue truppe superstiti insieme a quelle inglesi sulle spiagge di Dunkerque, Mussolini dichiarò l’ora dei destini immancabili battente sul cielo della patria. L’Italia a quel punto diventava un nemico, ma Radio Londra non abbandonò gli italiani. Anzi. Consapevoli di combattere una guerra che aveva senso soltanto per una èlite, pervasi di un sentimento di ammirazione per quell’isola lontana che malgrado tutto resisteva, speranzosi di cogliere parole di speranza tra i fruscii e le scariche elettriche di onde radio che attraversavano un continente occupato e che tuttavia nemmeno la letale macchina da guerra del Fuhrer poteva fermare, gli italiani presero l’abitudine di radunarsi la sera, col favore delle tenebre e del silenzio che consentiva di cogliere i rumori eventuali di una irruzione della polizia fascista, accanto a quegli apparecchi radio la cui diffusione l’EIAR aveva incentivato nelle loro case.
L’appuntamento serale divenne irrinunciabile fino alla fine delle ostilità, molto sangue e molte tragedie dopo. Parla Londra, era il segnale di arrivo di una voce amica, l’unica in quell’Europa posseduta da mostri. Seguito da quell’incipit della Quinta di Beethoven, che in realtà era la trascrizione in linguaggio morse della V per vittoria che le dita di Churchill avevano sbattuto in faccia al mondo intero fin dall’ora più buia.
Dopo che i primi rovesci avevano mostrato come la guerra a fianco di Hitler fosse stata nient’altro che una solenne idiozia, la gente smise di ascoltare la propaganda fascista diffusa dagli altoparlanti e si concentrò su quella voce sommessa che arrivava da lontano, da Londra, la capitale inglese che a quanto pareva i bombardamenti tedeschi e italiani non erano riusciti né a distruggere né a ridurre al silenzio. Fu da Radio Londra che molti italiani appresero nella notte del 25 luglio 1943 che Benito Mussolini non era più il loro Duce.
Il colonnello Harold Stevens, ribattezzato colonnello Buonasera, con la sua voce pacata, amichevole, rassicurante, avrebbe poi tenuto al corrente gli italiani (così come altri suoi colleghi, a cominciare da Thomas Mann, emigrato in Florida, facevano con le altre popolazioni europee) degli sviluppi della guerra di liberazione. La voce di Stevens prometteva ai nemici un dopoguerra di ritorno alla normalità, alla amicizia che aveva legato i due popoli fin dai tempi di Garibaldi e di Mazzini. Quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia a Gela il 10 luglio del 1943, i siciliani fecero trovare loro uno striscione che recitava: ben arrivato colonnello Stevens.
A quel punto, Radio Londra occupava le sue frequenze anche con messaggi, per così dire, di servizio. Le cosiddette trasmissioni in codice destinate alle forze combattenti nelle zone occupate. Il 6 giugno 1944 Londra avrebbe parlato finalmente recitando i versi di Paul Verlaine, tratti da quella sua Chanson d’Automne che lui mai e poi mai avrebbe immaginato potesse un giorno essere destinata a diventare così immortale. Ferisce il mio cuore con monotono languore. Il Maquis, la Resistenza francese, aspettava a gloria quei versi, perché erano il segnale dell’inizio del D-Day, lo sbarco in Normandia. Il giorno in cui la loro patria, tutte le patrie, avrebbero riavuto la libertà.
Per quattro interminabili anni, italiani, francesi, tedeschi e tanti altri europei avevano resistito nella notte più buia aggrappati a quelle voci lontane. In Italia, rischiando due mesi di arresto e mille lire di multa con il sequestro dell’apparecchio radio. Il regime fascista non è mai stato particolarmente crudele, se non nei giorni lividi di Salò e delle Camicie Nere in disperata ritirata. Il regime nazista non era altrettanto condiscendente. Per chi veniva beccato a sintonizzare il suo Volksempfänger, il suo ricevitore radio, sulle frequenze di Radio Londra, c’era la pena di morte.
La BBC continuò a trasmettere in italiano L’Ora di Londra ogni sera fino al 31 dicembre 1981, quando il programma fu chiuso per motivi economici, nonostante le proteste di numerosi ascoltatori della nostra penisola. Le ultime trasmissioni andavano in onda nella fascia oraria dalle 22.00 alle 23.00. Risulta che almeno centomila dei nostri connazionali avessero conservato da quarant’anni a quella parte l’abitudine di ascoltare la BBC.
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