Musica

Oh Happy Day

Gospel. La parola di Dio. La musica nera degli Stati Uniti era nata nelle piantagioni del sud dove lavoravano gli schiavi, che avevano importato dalla natìa Africa ritmi e spiritualità tribali poi mescolatisi con quelli della religiosità cristiana imposta loro dai padroni bianchi.

Gli spirituals, le preghiere cantate, si erano evoluti nel gospel dopo la fine della schiavitù, ma la segregazione tra bianchi e neri si era mantenuta anche tra i rispettivi generi musicali. Con il tempo era divenuto tuttavia evidente che i neri d’America avevano un ritmo superiore, e grazie a quello ed alle contaminazioni blues, rythm and blues e jazz, spiccarono il volo musicalmente parlando tra gli anni venti e quaranta del ventesimo secolo.

Per i diritti civili degli afroamericani ci sarebbe voluto un altro po’, ma a partire dalla seconda guerra mondiale l’uomo bianco non ebbe più problemi di sorta a ballare al ritmo della musica suonata e cantata dall’uomo nero.

Che si appropriò spesso e volentieri anche di inni spirituali originariamente appartenuti alla tradizione bianca, restituendoli come hits di successo nel panorama musicale moderno. Come quel Oh Happy Day composto da chissà chi e chissà dove nel XVIII° secolo e che grazie alla rivisitazione in chiave soul e gospel degli Edwin Hawkins Singers, uno dei tanti quartetti della fine degli anni sessanta, arrivò fino al 4° posto stagionale nella hit parade americana.

Non era il brano principale del loro album Let Us Go into the House of the Lord del 1968, ma lo divenne non appena le radio di tutti gli Stati Unti se ne impossessarono. Con sette milioni di copie vendute in appena due mesi ed un Grammy Awards, Oh Happy Day entrò nella leggenda, oltre che nell’uso comune.

Non è a stretto rigore un canto natalizio, i protestanti lo usano per le cerimonie battesimali e cresimali. In Italia è stato legato al Natale dalla pubblicità di una nota marca di spumanti a partire dal 1980.

Ma soprattutto è legato ad una delle più divertenti e suggestive commedie cinematografiche americane di tutti i tempi, Sister Act (parte 1^ e 2^, da noi tradotta come Una svitata in abito da suora), che oltre che ad una colonna sonora splendida e di cui il brano in questione è uno dei tanti capisaldi deve moltissimo al genio recitativo di Whoopi Goldberg.

Ed è in quella versione che ve lo proponiamo.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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