L’ultima bravata del governo Draghi non è detto che sia l’ultima, ma è di sicuro la più eclatante, anche se parlare di eclatante per l’azione di un governo che si è messo ormai al di fuori di ogni legalità costituzionale può apparire a questo punto riduttivo.
Dunque, dopo il decreto che istituisce il trattamento sanitario obbligatorio per il personale sanitario in spregio all’art. 32 della Costituzione, dopo il decreto che istituisce il green pass obbligatorio per il personale della scuola e dell’università in spregio alla libertà di circolazione e di esercizio della professione stabilita da leggi nazionali e regolamenti comunitari, dopo il decreto che stabilisce lo stesso obbligo per tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati (nel primo caso stabilendo tra l’altro una forma di condizionamento nell’esercizio della funzione pubblica espressamente vietato dalla legge, nel secondo costringendo probabilmente molte piccole e medie imprese a chiudere per motivi giuridici ed economici facilmente intuibili), ecco che arriva il decreto Brunetta. Tutti i dipendenti pubblici in ufficio, fine dello smartworking!
Lasciando perdere il ghigno di Brunetta e le sue sprezzanti parole nei confronti dei lavoratori del pubblico impiego e dei renitenti al vaccino, la gravità del provvedimento risiede soprattutto nella sua evidente contraddizione con lo stato di emergenza che il governo sta mantenendo tutt’ora in vigore e sta anzi pensando di prorogare fino alla massima scadenza costituzionalmente possibile del febbraio 2022.
Delle due l’una, e anche chi finora si è occupato di banca e di speculazioni economiche dovrebbe saperlo: o i presupposti dello stato di emergenza non sussistono più, e allora andrebbe revocato, anche perché sta consentendo al governo di governare per decreti, snaturando completamente lo spirito ed il meccanismo della democrazia parlamentare tanto a lungo decantati da tutte le forze politiche presenti in parlamento ed al momento volenti o nolenti esautorate; in tal caso potrebbe avere senso riportare la gente a lavorare in ufficio senza tuttavia rinnegare quello smartworking, o italianamente telelavoro, che da tempo e da più parti è stato individuato come uno strumento agile (altro sinonimo infatti, sempre nella lingua italiana: lavoro agile) sempre più essenziale della pubblica amministrazione e di quelle private medio grandi per il futuro di un paese moderno e competitivo. Un pilastro quasi di quell’altro istituto decantato da anglofili riformatori nostrani come il toccasana dei nostri conti pubblici: la spending review.
Oppure, ed è l’altra ipotesi, l’emergenza sussiste ancora, come vorrebbero farci credere a tutti i costi sia i nostri politici che gli addetti all’informazione, e tenuto conto anche dell’intenzione di prorogarla fino allo spasimo dichiarata dal premier e dai suoi ministri (sperando tra l’altro che non si inventino qualcosa per andare oltre la soglia invalicabile dei due anni) diventa semplicemente assurdo – anche nella visione del mondo di una persona che odia il suo prossimo come Renato Brunetta e che trova geniale ogni provvedimento che fa pagare a quel prossimo i conti che lui ha in sospeso con la propria esistenza – riportare in sede lavoratori che a detta dei loro datori di lavoro rischiano adesso né più e né meno come due anni fa, quando furono messi in lockdown e quel lockdown fu ribattezzato smartworking.
Propendiamo, come sa chi ci ha seguito finora, per la prima ipotesi. L’emergenza, se mai c’è stata, è abbondantemente finita, la vita deve riprendere normalmente anche sul pianeta Italia, e i lavoratori devono riprendere a lavorare in condizioni normali. Tutti, anche i pubblici, senza dover sopportare tra l’altro le minacce ed i ricatti di un premier che ha l’intenzione ormai praticamente dichiarata di inoculare a tutti loro la pozione di stato anti-covid a pena della perdita del posto di lavoro e dello stipendio, a cui si aggiungono gli sberleffi di un improbabile ministro della funzione pubblica che, dopo i danni arrecati durante precedenti esperienze governative allo status giuridico ed economico di chi serve nell’amministrazione civile dello Stato, è riemerso dalle nebbie della palude politica per tornare a fare del male a tutti coloro che hanno l’unica colpa di avere qualche centimetro di statura più di lui. In tutti i sensi, morale e materiale.
L’ultimo atto di un governo che ormai oscilla tra i riferimenti culturali del fascismo e della dittatura del Grande Fratello è anche il primo che si pone totalmente al di fuori della logica costituzionale, prima ancora che del suo dettato. E’ il segnale che il fronte del vaccino di stato sta perdendo i suoi argomenti che finora, complice un quarto potere, l’informazione, connivente nel diffondere fake news in qualche modo ammantate di un certo apparente raziocinio, era riuscito a contrabbandare per verità scientifiche ed obblighi giuridici.
Da qui in avanti, Mario Draghi ed il suo fido Brunetta devono decidere se fare il salto del Rubicone, porsi completamente al di fuori della legge ed instaurare una dittatura che, come quella di Mussolini dopo il 3 gennaio 1925, non può essere più spacciata come una forma, obbligata dagli eventi, di gestione più autoritaria di uno stato che resta comunque liberale.
In Italia di liberale non è rimasto più nulla. Per capire in che condizioni vivono gli italiani bisogna accendere la televisione direttamente sulla BBC o sui canali della TV francese, chi ha la fortuna di capire le lingue. Altrimenti, le foto del dissenso da un lato e delle malversazioni dall’altro circolano su internet ancora liberamente, malgrado i tentativi di manipolazione.
Quando un funzionario dell’amministrazione statale come la dottoressa Schilirò cita Gandhi per dire come stanno le cose, non incita affatto alla rivolta verso le istituzioni e l’ordinamento giuridico di cui fa parte. E tuttavia è il segno che l’ora della rivolta è forse arrivata.
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