Anche questo è un prototipo, un archetipo, un caposcuola. Quella dei giornalisti che in realtà vorrebbero fare i politici, saltando il fosso come la quaglia.
Paragone nasce padano, e cresce leghista. Fa il giornalista, sì, ma per la Prealpina (non un formaggino, ma un periodico del gruppo Bossi & c.) e poi per Libero, dove studia da Feltri senza però laurearsi.
Alla RAI studia da Mentana, ma anche in questo caso non ottiene il diploma. Allora passa alla 7, dove Cairo gli fa fare quello che gli pare. E’ qui che le sue strade si intersecano con la politica attiva. Esce dalla Gabbia (il suo talk show) e complice la campagna contro i vaccini bestiali della Lorenzin si avvicina al Movimento Cinque Stelle.
Sembra in grado addirittura di insidiare a Marco Travaglio il ruolo di giornalista ufficiale del movimento, ma in realtà è rimasto leghista dentro, e soprattutto giornalista non ci è mai diventato. Non regge alla ritinteggiatura giallorossa del governo gialloverde ed eccolo fuori, a fondare Italexit. Per stare sul sicuro, ci riprova a battersi contro i vaccini, stavolta quelli anti-Covid, ma è troppo tardi. Prende meno voti di Salvini e Di Maio messi insieme. Il parlamento lo vede dunque come la Regina vede Trieste nella canzone del general Cadorna.
Disgraziata la patria che ha politici e giornalisti intercambiabili, nel senso che non valgono nulla in entrambi i mestieri.
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