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La Giornata senza Memoria

Ha ancora senso nel 2023 celebrare una Giornata della Memoria? Memoria di tutti gli orrori che la razza umana ha perpetrato contro se stessa? Memoria di tutte le vittime passate sotto silenzio e sacrificate prima ad ideologie aberranti e poi al nostro ritrovato quieto vivere, che non può permettersi troppi incubi la notte a togliere il sonno?

Giornate della memoria dovrebbero esserlo tutte e 365, lo scriviamo da anni. Il Male, per usare una immagine di Hannah Arendt, dispiega la sua banalità quotidianamente. Non ha senso limitare la nostra ripresa di coscienza ad un giorno, ad un treno, a rievocazioni retoriche e quasi sempre strumentalizzate a vantaggio di vecchie e nuove ideologie che ancora non si vergognano di sopravvivere o di riaffacciarsi.

Ma se vogliamo mantenere questa data ufficiale, se vogliamo che abbia ancora un senso nel nostro calendario e nel nostro vivere civile, una qualche sorta di aggiornamento del software nei nostri cervelli va operato. Come molte date ufficiali di questo calendario, la Giornata della Memoria è invecchiata, mostra i segni dell’usura del tempo, va adeguata ai tempi nuovi ed ai nuovi orrori sopraggiunti.

Fu scelto il 27 gennaio in ricordo di quel 1945 in cui la seconda guerra mondiale arrivò a conclusione e dalle macerie emersero le prove tangibili delle atrocità del nazismo, la più aberrante delle ideologie. L’Armata Rossa entrò quel giorno in quello che era destinato ad essere ricordato come il più importante e tragicamente efficiente dei campi in cui si organizzava ed eseguiva la soluzione finale voluta da Hitler e fornitagli ossequiosamente dai suoi gerarchi, in mezzo alla disattenzione di tanti popoli che barattarono la coscienza con la sopravvivenza girandosi dall’altra parte.

I soldati russi erano abituati alla loro buona dose di orrori, forniti in patria dal comunismo bolscevico e dalla stoica resistenza all’invasione tedesca che era costata loro la vita di ben 22 milioni di connazionali. Numeri incredibili, spaventosi. La contabilità di lì a poco andò aggiornata sommando i 6 milioni di ebrei spariti nei lager tedeschi disseminati per l’Europa.

I russi avevano lo stomaco indurito da quattro anni di abominevoli tragedie, ma a quello che si trovarono davanti entrando ad Auschwitz Birkenau non erano pronti neanche loro. Non lo era nessuno, tra i tanti soldati e addetti all’informazione di guerra che entrarono in campi analoghi lungo la strada degli eserciti alleati verso Berlino.

Non lo siamo e non lo saremo mai, grazie a Dio. Ma appena è stato possibile, abbiamo dimenticato volentieri, riprendendo antiche e sanguinose consuetudini. La tragedia del popolo ebraico inizialmente colpì per la sistematicità dell’orrore, che non aveva precedenti. La fabbrica della morte organizzata dai tedeschi sarebbe stata degna di ammirazione se fosse stata destinata ad attività pacifiche e produttive. Ad Auschwitz il Male trovò, per comune sentimento dell’opinione pubblica, il suo mausoleo più significativo e tragicamente suggestivo.

Fissammo una data del calendario, e credemmo di essere a posto. Di aver trovato l’antidoto a quel Male, a quegli orrori, mandando sul palco ogni anno il giorno 27 di gennaio qualche politico a farci la morale retorica, e qualche treno carico di ragazzi a sperimentare appena parzialmente la tragedia vissuta da gente spedita a morire di stenti e di freddo, oppure strozzata dal gas zyklon B.

Intanto succedevano due cose. L’antisemitismo che è latente nella nostra cultura da tempo immemorabile (“il popolo che ha ucciso Dio”) riprese vigore dopo il 1945 più inarrestabile che mai, sommato all’antiamericanismo di nuova acquisizione. Nello stesso tempo, il deterrente morale fornito dal conto interminabile delle vittime e dalla comparsa sulla scena della bomba atomica andò pian piano ma inesorabilmente a scemare, permettendo agli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo di riprendere in considerazione l’opportunità di saltarsi di nuovo alla gola a vicenda.

La guerra nei Balcani, quella in Siria e adesso quella tra Russia e Ucraina (per dire solo delle più eclatanti, poiché scoppiate in un’area geografica, l’Europa e le sue pertinenze, che si riteneva ormai vaccinata contro certe pulsioni) hanno dimostrato che l’uomo non impara niente.

E’ legittima l’obiezione di chi dice che è ingiusto limitare la Memoria soltanto all’Olocausto ebraico (la guerra del Vietnam da sola costò quasi due milioni di morti, la maggior parte vietnamiti), ma se vogliamo prendere tutti in considerazione – dai curdi alle vittime dell’interminabile conflitto arabo-israeliano, alle vittime di ogni terrorismo e delle guerre civili, a quelle degli spietati golpe sudamericani, e chiediamo scusa a tutte le vittime che qui non menzioniamo -, allora che perlomeno di questo interminabile conteggio dell’orrore se ne tenga conto nella vita di tutti i giorni.

Facile esecrare russi e ucraini per aver riportato la guerra nel cuore della civile Europa. La voglia di menare le mani per farci giustizia da soli ce l’abbiamo un po’ tutti, nella vita di tutti i giorni. La memoria di quelle decine di milioni di disgraziati sterminati nell’ultimo secolo (per fermarsi all’epoca contemporanea) dovremmo coltivarla in ogni istante. E non solo nelle poche ore in cui qualcuno farà discorsi ufficiali, e la maggior parte farà spallucce e sbufferà con fastidio.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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