Alla fine, siamo quello che riusciamo a combinare nella nostra vita, date le condizioni di partenza. Siamo anche e soprattutto quello che le nostre origini, la nostra nascita ci mettono in condizione di fare, stabilendo – per caso, per disegno divino, per tutto ciò che ci suggeriscono, ci fanno sognare la nostra filosofia o la nostra religione – da quale punto in poi, e fino a quale altro, il segmento della nostra esistenza si sovrappone alla retta infinita del ciclo della vita.
Jeanne d’Arc, la Pulzella d’Orleans, da circa un secolo protegge la Francia. Colei che volente o nolente dette avvio alla sua grandeur, è stata dalla Francia ripagata con il conferimento dello status di Santa Patrona.
La nostra patrona, di noi italiani, è Caterina Benincasa da Fontebranda, Siena, era figlia di un tintore, come Francesco di Pietro Bernardone da Assisi. Diversamente da quella di lui, la sua crisi mistica non era stata causata dalla partecipazione ad un evento tragico, come la guerra contro Perugia. Al pari di quella di lui, la sua influenza sulla Chiesa e sulla società del tempo fu tale da valerle una consacrazione capace di sfidare i secoli a venire. Santa Caterina e San Francesco, Patroni d’Italia a partire dal Concordato del 1929 (prima lo Stato italiano era maledetto dalla Chiesa di Roma, per le note vicende risorgimentali), sono due figure mistiche, quasi gandhiane, trascendenti il loro tempo e la loro società.
Sapere chi sono i nostri progenitori aiuta molto a spiegare chi siamo. Francesi e italiani, cugini fin dal tempo di Giulio Cesare, affini e culturalmente interdipendenti come pochi altri popoli. Eppure, più diversi gli uni dagli altri non potremmo essere.
All’origine di entrambe le nostre comunità nazionali ci sono – abbiamo voluto che ci fossero – due donne. Entrambe figlie del loro tempo, suggestionate, chiamate da visioni, da voci interiori, dalla voce di Dio. Lo stesso Dio, quello cristiano, ma capace di parlare di qua e di là dalle Alpi due linguaggi completamente diversi.
Giovanna era una donna guerriera. Toccò a lei, umile popolana lorenese, prendere in mano l’Orifiamma e l’orgoglio francese e risollevarli, dopo che per ottant’anni (dei cento che quella guerra sarebbe durata) gli uomini, i cavalieri avevano miseramente fallito soccombendo puntualmente agli Inglesi. Il Dio che risvegliò la sua spiritualità la spinse a indossare la corazza dei maschi e a brandire la spada. Durante l’assedio di Orleans, aveva rimproverato il suo paggio per non averla destata durante un attacco inglese. «Il sangue di Francia viene versato e voi non mi avvisate!». Fu catturata sotto le mura di Compiegne, durante una sortita. Gli Inglesi la bruciarono come eretica, ma la Chiesa che avallò la sua condanna – salvo poi beatificarla dopo il consueto lasso di tempo plurisecolare come accaduto a tante altre sue vittime -, sapeva benissimo che quella inglese era solo l’eliminazione della propria mortale nemica sul campo di battaglia.
Caterina era una donna infermiera. Il suo misticismo era venato di misandrìa, manifestatasi per la prima volta a sedici anni in occasione della proposta di matrimonio ricevuta dai genitori, e di fanatismo. Il suo anelito disperato al rifugio presso le Terziarie Domenicane, a lungo negatole dalle autorità ecclesiastiche in quanto sprovvista di dote, pareva una fuga dal mondo. In realtà, Caterina più che fuggire dal mondo desiderava piegarlo alle proprie visioni. Dotata di una capacità di perseveranza, di insistenza sovrumane (come avrebbe ampiamente mostrato nel pressing sul Papa per trarlo via dalla cattività avignonese e riportarlo a Roma), riuscì a convincere la Chiesa ad accoglierla tra le sue file, dalle quali prese a tempestare tutti i personaggi di spicco dell’epoca impartendo loro precetti morali martellanti. Nei ritagli di tempo, si dedicava all’assistenza ai malati ed agli indigenti nei lazzaretti e nei ricoveri che all’epoca cominciavano a fiorire tra Siena e Firenze.
Entrambe votate ad una causa in modo quasi soprannaturale. Ma se Giovanna ispira istintivamente rispetto, ammirazione per il suo coraggio perfino negli ultimi istanti, sul rogo che ne divora le spoglie mortali, Caterina suscita inquietudine, scarsa simpatia. Per Caterina l’aggettivo fanatica suona appropriato, dove Giovanna è semplicemente coraggiosa.
La Pulzella d’Orleans dà origine a una nazione, e da questa nazione viene perennemente ringraziata per averle donato i fondamenti, quelle virtù militari che, come diceva Montanelli, sono la conditio sine qua non di ogni comunità civile libera e indipendente. Come nel caso di Boadicea regina dei Celti di Britannia, c’è una donna all’origine della grandeur francese, e ce ne saranno altre, fino a quella Marianne che nei moti del luglio 1830 impugna il tricolore della Grande Rivoluzione del 1789 sulle barricate di Parigi che valgono la fine della dinastia dei Borbone-Capeti e l’avvento della monarchia liberale.
La nostra invece è una patrona no global, una specie di Greta Thunberg ante litteram, che dialoga da pari a pari con i potenti d’Europa martellandoli e spesso esasperandoli su questioni morali che sconfinano spesso nel moralismo. Che non fonda alcuna comunità nazionale, contribuendo anzi a distruggerla e ritardandone il Risorgimento di almeno cinque secoli.
La Chiesa cattolica apostolica la cui sede Caterina da Siena non ha bene finché non ha riportato a Roma è da sempre infatti – dalla famigerata ed artefatta donazione di Costantino che le attribuisce l’eredità del potere temporale dell’Impero Romano – nemica giurata di uno stato nazionale italiano. E dell’insorgere di potenze militari e politiche talmente forti da poter assurgere a dimensioni sovra-regionali, in prospettiva nazionali. Il vero e tanto decantato ago della bilancia italiana nel Rinascimento non erano famiglie come i Medici o gli Sforza, ma il Papa di Roma. La bilancia non doveva pendere mai da nessuna parte rispetto a signori e signorotti della Penisola, o la Chiesa avrebbe perso i suoi domini terreni, come finalmente accadde solo dopo Porta Pia, nel 1870.
Come Patrona d’Italia è stata scelta colei che non concepì mai l’Italia come entità concreta e reale, che si adoperò più di ogni altro o altra per ritardarne la nascita, che favorì il reinsediarsi nel suo ambito geografico di un’altra entità incompatibile, il regno temporale di quel «dolce Cristo in terra» come lei chiama quel Pontefice che un giorno avrebbe lanciato un anatema sul nostro Paese, maledicendolo in quanto usurpatore del potere del Papa Re.
Come loro Patrona, i francesi scelsero invece colei che non sopportò di vedere il suo popolo umiliato, il suo re esautorato, il suo stendardo calpestato, né di credere che tutto ciò fosse il volere di quel Dio di cui – al pari di Caterina – sentiva le voci.
Giovanna brandisce una spada in tutte le sue raffigurazioni. Caterina ha sempre le mani giunte, in preghiera. Giovanna è una condottiera, Caterina una volontaria delle ONG. Giovanna ha una patria, Caterina non sa neanche cosa sia. E se anche per caso le sovviene, si affretta a strozzarla nella culla, unica povera creatura che la sua carità apparentemente smisurata sente di non dover soccorrere.
Giovanna apre la strada, è l’archetipo delle donne francesi, spesso e volentieri addirittura più coraggiose e capaci dei loro connazionali maschi. Caterina chiude la strada non solo alle donne del suo paese, ma a tutte quelle che ricadono sotto l’influenza di Santa Romana Chiesa.
Sono cugine alla lontana, e cugine sono le rispettive discendenze. Non potremmo essere più dissimili. Le Alpi dividono mondi completamente diversi.
Nelle foto: Caterina patrona d’Italia (Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380) e Giovanna patrona di Francia (Domrémy, 1412 – Rouen, 30 maggio 1431)
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