Barack Obama è stato per otto anni l’uomo più potente del mondo. E’ riuscito nell’impresa storica di non combinare assolutamente nulla. Buffo vederlo adesso a Milano a pontificare, a dettare la linea ai progressisti europei, i democrats di casa nostra. Gente che ci tiene ad etichettarsi di sinistra, anche se il loro tratto distintivo sono i soldi ed il potere, non importa come acquisiti e soprattutto non importa come esercitati e spesi, piuttosto che gli ideali. Gente che si chiama Mario Monti, Matteo Renzi, Marco Tronchetti Provera, Diego Della Valle, fatti e misfatti di due o tre repubbliche tutti radunati insieme allo stesso tavolo a 850 euro a coperto.
La sinistra salottiera, radical chic, ha sempre smaniato per potersi pavoneggiare accanto ai frutti esotici con cui farsi fotografare a tavola, e pazienza se con il costo di un solo coperto alle sue cene ci si sfama l’intera utenza di un punto di ristoro della Caritas.
Una volta era Arafat, o qualche altro campione di qualunque cosa fosse contro quell’Occidente che tuttavia aveva imbandito la sua tavola ma sul quale era molto in, molto trendy sputare, malgrado il Galateo. Adesso il gusto si è fatto ancora più raffinato, o forse più perverso. E’ la volta dell’afroamericano diventato Mr. President. Fa tanto Spencer Tracy e Katharine Hepburn.
Peccato che a cena non viene Sidney Poitier, ma piuttosto un tipo che probabilmente ha fatto rivoltare nella tomba Martin Luther King, Malcom X e tutti gli altri della sua gente che avevano speso decenni di lotta e le loro vite soltanto per aprire la strada ad un involucro vuoto come lui. Forse perfino Ken Follet si è pentito di avergli dedicato le pagine toccanti della chiusura dell’affresco epico della Trilogia del Novecento. Di sicuro, è un dato di fatto che ha convinto la sua stessa gente – i neri d’America, se ancora si può usare questa terminologia ai tempi della Boldrini e del politically correct – a votare stavolta per un bianco repubblicano, visto quanto hanno beneficiato dell’Obamacare.
Ma l’importante è apparire, per il Presidente fallito e per la sinistra in cerca di nuovi manicaretti. Magari sotto lo sguardo compiaciuto di occhi che non sono solo quelli rappresentati nel triangolo disegnato sulla banconota da un dollaro nordamericano, ma anche e soprattutto quelli assai più prosaici dei finanzieri internazionali che permettono tutto questo: la cena di lusso dentro, la fame fuori.
Nel foyer, tra un ruttino educatamente appena accennato ed un discorso sconclusionato – e comunque fuori dalla realtà di popolazioni che una cena così se la sognano nell’arco di un’intera vita – sui destini dell’Europa e del mondo, si inneggia a Macron. Il quale ha già pensato bene di rompere subito le scatole al presidente americano vero, quello in carica. Mentre lui in carica non c’é ancora entrato, non è ancora M.sieur le President, ma già viene paragonato a De Gaulle. Dai tedeschi, ed è tutto dire. I francesi, malgrado nel conto delle repubbliche siano a cinque e quindi – e non solo per quello – avanti a noi, mangiano ancora troppo bene evidentemente. La Gauche è sparita come partito, ma perdura ancora come disturbo della percezione sensoriale.
Macron ha fatto bene i suoi conti, del resto era ministro dell’Economia. Dare addosso a Trump come prima uscita dovrebbe garantirgli – nel suo immaginario mutuato al volo da quello della sinistra gourmet, dei compagni finanzieri, degli Altiero Spinelli de noantri e dei vari PD europei di fronte alla cui platea vorrebbe accreditarsi – una patente di progressismo che il suo nulla mascherato da politica economica difficilmente gli assicurerebbe.
Sarebbe interessante, anche per i risvolti linguistici, chiedere ad un Diego Della Valle di riassumere con parole sue, come ci dicevano a scuola, il succo della serata. Ma forse lui era lì soltanto per offrirsi di restaurare il Madison Square Garden.
Cose che noi italiani non possiamo capire.
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