Andreas Seppi sul green di Calcutta
Giungono buone notizie dall’India, dove, nella notte italiana, Andreas Seppi e Matteo Berrettini hanno conquistato i primi due punti dei tre necessari per il superamento del primo turno di Coppa Davis. L’Italia torna per la sesta volta ad affrontare i tennisti del subcontinente asiatico, e per la prima volta sull’erba proprio da quel 1985 in cui subì a Calcutta la prima ed unica sconfitta contro l’India. Vijay Amritraj & c. sorpresero Claudio Panatta, Francesco Cancellotti e Gianni Ocleppo battendoli per 3-2, confermando che l’erba (superficie sulla quale siamo impegnati anche stavolta, sempre in quel di Calcutta, perché nessuno tiene alle vecchie tradizioni british quanto gli indiani che non vedevano l’ora di cacciare gli inglesi) non è la nostra superficie più congeniale. Siamo terraioli, come si dice in gergo, ed al limite ci adattiamo al sintetico ed alle altre superfici veloci. L’erba, come disse una volta il grande Paolo Bertolucci, dalle nostre parti è buona solo per le mucche.
E’ anche la prima volta che, al pari di tutte le altre formazioni impegnate, gli azzurri si cimentano con la nuova formula che a partire da quest’anno ha sostituito la vecchia Coppa Davis, arrivata ai giorni nostri più o meno così come l’aveva concepita il suo omonimo fondatore.
Dwight Filley Davis sarebbe passato alla storia per essere stato segretario del Dipartimento della Guerra degli Stati Uniti nell’amministrazione di Calvin Coolidge. Ma prima di allora, ai tempi in cui era un famoso e forte tennista (finalista degli U.S. Open nell’edizione 1898 e tre volte vincitore del doppio negli stessi anni), aveva avuto la geniale idea di introdurre in un gioco individualista per eccellenza come il tennis la scommessa di una competizione a squadre. Insieme ad alcuni suoi colleghi con i quali rappresentava l’Università di Harvard nelle competizioni allora rigorosamente dilettantistiche (il professionismo si sarebbe timidamente affacciato alle Olimpiadi e nel mondo dello sport soltanto alla fine degli anni 20, ai Giochi di Amsterdam), lanciò il guanto di sfida alla squadra nazionale più forte dell’epoca: quella degli inglesi, maestri inventori del tennis moderno così come di quasi tutti gli sport che oggi giochiamo o seguiamo da spettatori.
La Gran Bretagna aveva allora un atteggiamento snob, di superiorità soprattutto nei confronti della ex colonia americana, che le era già costata la prima edizione (e poi tutte le successive) della Coppa America di vela e che un giorno (Mondiali brasiliani, 1950) le sarebbe costata anche una cocente sconfitta a calcio contro la cenerentola Stati Uniti, all’epoca una specie di squadra di dopolavoristi. A Brookline, Massachussets, Longwood Cricket Club, dove fu messa in palio la prima insalatiera (fatta fondere e cesellare direttamente da Davis, che pagò di tasca sua), i britannici mandarono una squadra sicuramente forte, ma non la più forte. I fratelli Renshaw, William ed Ernest, i fuoriclasse dell’epoca plurivincitori di Wimbledon e degli altri grandi tornei, erano sul viale del tramonto, o non se la sentirono di affrontare la lunga traversata fino a Boston. Al loro posto, Arthur Gore, Ernest Black e Roper Barrett si fecero sorprendere dagli yankees Malcolm Whitman, Holcombe Ward e naturalmente Dwight Davis, che possedevano altrettanto sciovinismo di loro ma più grinta e voglia di vincere.
L’anno dopo non si gareggiò, ma due anni dopo gli inglesi chiesero ed ottennero la rivincita, che finì poi per essere istituzionalizzata. Nel 1902 la Coppa rimase in America, ma nel 1903 prese la strada del Regno Unito, dove rimase poi per quattro anni. A quel tempo il tennis, nato dalla evoluzione della rinascimentale pallacorda, era diffuso soprattutto nei quattro paesi sede di quei tornei che sarebbero stati codificati come il Grand Slam: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Australia. Tre superfici in erba ed una in terra battuta. Era inevitabile che la Davis non potesse restare una questione angloamericana, una rivincita a colpi di racchetta tra ex madrepatria ed ex colonia. Nel 1905 Francia e Australasia (selezione di Australia e Nuova Zelanda) furono ammesse alla contesa, insieme al Belgio ed all’Austria (paese dove il gioco stava prendendo piede, pare che lo stesso Sigmund Freud fosse un appassionato giocatore di tennis). L’Italia cominciò a gareggiare negli anni 20, più o meno nel periodo in cui il coccodrillo René Lacoste, assieme ai compagni Henri Cochet, Jacques Brugnon e Jean Borotra, fece della Francia dei Quattro moschettieri la nazione egemone nel tennis.
Il torneo si chiamava allora International Lawn Tennis Challenge. Sarebbe stato battezzato Coppa Davis dopo la morte del suo omonimo fondatore nel 1945. Fino al 1971 mantenne la formula del challenge round, secondo la quale il tabellone del torneo, attraverso incontri ad eliminazione diretta, serviva a determinare chi sarebbe stato lo sfidante del detentore del titolo dall’anno precedente. Detentore che attendeva comodamente il suo avversario, limitando la propria fatica ad un solo match. La finale, appunto. Fino al 1973, grazie anche al fatto di poter limitare appunto la fatica (mentre gli aspiranti sfidanti passavano attraverso una serie infinita di turni eliminatori, il cui numero cresceva man mano che ai partecipanti si aggiungevano quasi tutte le nazioni del mondo, raccolte in un unico tabellone senza teste di serie) e di poter scegliere la superficie su cui si sarebbe giocata la finale, la Davis era passata dalla bacheca americana a quelle australiana, francese e britannica senza che nessun altro dei paesi nel frattempo divenuti tennisticamente avanzati avesse potuto interferire. L’Italia aveva giocato la finale due volte sole, nel 1960 e nel 1961. Il suo miglior giocatore, Nicola Pietrangeli, sarebbe poi passato alla storia come il recordman della Davis, il giocatore più presente e quello in assoluto con il maggior numero di vittorie individuali, 120 contro 44 sconfitte per un totale di 164 presenze. Ma contro gli aussies – che in quel momento dietro al fuoriclasse mai più eguagliato da nessuno, Rod Laver, autore di due Grand Slam nel 1962 e 1969, potevano schierare una serie quasi infinita di campioni appena di poco inferiori a lui – non c’era stato niente da fare. Sull’erba del White City Stadium di Sidney, dove l’Italia avrebbe combattuto valorosamente ma sfortunatamente anche nella finale del 1977, i padroni di casa erano troppo favoriti, troppo più a loro agio.
I tempi moderni fecero irruzione nel torneo nel 1974. Dal 1969 il tennis era diventato open, aveva cioé aperto al professionismo mettendo fine a quell’ipocrisia che aveva privato tanti campioni – tra cui lo stesso Rod Laver – della possibilità di avere un palmares ancora più strabiliante, e non solo nel tennis. Di colpo, indossare la maglia della nazionale del proprio paese da motivo di orgoglio che era stato divenne motivo di fastidio, e di rinuncia ai lauti guadagni che i tennisti professionisti potevano mettersi in tasca evitando la convocazione agli incontri con in palio la vecchia, gloriosa, ma scarsamente remunerativa insalatiera.
Alle porte della Coppa Davis bussava già insistentemente la novità introdotta nei grandi e piccoli tornei del circuito: il tie break, che aveva scorciato considerevolmente gli incontri al meglio dei cinque set. La ITF, la Federazione internazionale, tentò di resistere all’introduzione di questa ed altre novità per tutti gli anni settanta. Risultato, il non infrequente slittamento degli incontri decisivi al lunedi (ricordiamo un Panatta – Newcombe decisivo per l’accesso dell’Italia alla finale del 1976 che regalò una notte delle streghe suppletiva ai giocatori ed agli aficionados). Con conseguenti complicazioni tra l’altro per la partecipazione dei giocatori ai tornei delle settimane successive.
I più forti, Borg, Connors, Vilas, cominciarono a disertare la Coppa. Nell’anno della sua unica vittoria, l’Italia, beneficiò di diverse assenze illustri, una su tutte quella di Bjorn Borg in Italia – Svezia che le semplificò indubbiamente le cose. Ai vizi indotti dal professionismo si aggiunse la politica. La prima nazione a rompere il passaggio di mano all’interno del quadrilatero USA – GB – FRA – AUS fu incredibilmente e paradossalmente il Sudafrica, nazione tecnicamente non eccelsa ma contro cui negli anni in cui si decideva il suo boicottaggio generale per sanzionare l’Apartheid, non voleva giocare nessuno. Nel 1974 la finale infatti non fu giocata, causa ritiro dell’URSS. Johannesburg ringraziò, e incise il proprio nome sul basamento della Coppa.
Nel 1975 fu la prima volta della Svezia, paese che negli anni successivi avrebbe fatto incetta di vittorie. Il mostro Borg riuscì a vincere il trofeo quasi da solo. L’anno dopo fu la volta dei Quattro Moschettieri azzurri, Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, guidati dal capitano non giocatore Pietrangeli che finalmente poté coronare un sogno atteso quindici anni. Quella volta, l’avversario più insidioso non fu l’erba, e nemmeno l’Australia che pur ci fece vedere i sorci verdi in semifinale. Fu la politica, che premeva per il boicottaggio dell’altra finalista, il Cile dove da tre anni governava Pinochet versando copiosamente sangue. Pietrangeli, Panatta & c. tennero duro, le magliette rosse portarono a casa – dallo stadio del tennis di Santiago adiacente a quello del calcio dove i dissidenti cileni erano diventati desaparecidos – la nostra prima e finora unica Coppa Davis.
La Coppa Davis lottava contro il tempo ed i cambiamenti. Dovette cedere al progresso una prima volta nel 1980, allorché la Federazione internazionale decise l’istituzione di una serie A ed una serie B, per scorciare gli incontri e liberare spazio nel calendario dei tornei. In quegli anni l’Italia metteva in campo selezioni ancora forti, anche se nessuna più così forte come quella che alle due finali del ‘60 e ‘61 aveva aggiunto quelle del ‘76, ‘77, ‘79 (contro gli USA di John McEnroe) e ’80 (contro la Cecoslovacchia di Ivan Lendl). Tutte disputate fuori casa. In finale vi sarebbe tornata un’altra volta, stavolta in casa, nel 1998. L’infortunio di Andrea Gaudenzi nel primo incontro contro la Svezia orientò la sorte e l’inerzia di quel match.
Dopo quella sconfitta, arrivò nel 2000 la retrocessione in serie B. Dove gli azzurri sarebbero rimasti per ben quindici anni. IL tennis italiano che cercava di rifondarsi e di ritrovare portacolori all’altezza si sarebbe riaffacciato al tabellone principale della Davis soltanto nel 2015, per ritrovare una competizione profondamente cambiata.
In questi ultimi anni, la Spagna – che proprio nel 2000 aveva colto la sua prima vittoria – è diventata un paese egemone non soltanto nel tennis, dove la sua lunga fila di campioni culminata in un altro mostro, Rafael Nadal, le ha consentito una incetta considerevole di vittorie e soddisfazioni, ma nello sport in generale.
Come già è successo nel Motociclismo, dove i Gran Premi ormai sono affidati in gestione esclusiva alla società Dorna Sports con sede a Madrid che ne ha fatto in pratica un feudo iberico, anche la Coppa Davis di tennis alla fine ha avuto l’assalto di una falange spagnola a cui non ha potuto o saputo resistere. Il gruppo Kosmos, creato dall’ex campione del mondo di calcio Gerard Piqué incidentalmente noto anche per essere il fidanzato della cantante Shakira, ha allungato le mani sull’insalatiera, e una Federazione internazionale ormai più attenta al business che allo sport gliela ha data in gestione.
E così, nel 2019 e 2020 la Coppa Davis diventerà una fotocopia della Federation Cup femminile, con match eliminatori concentrati in due giorni e disputati al meglio dei tre set, con tie breaks risolutivi e doppio giocato alla fine solo se decisivo. Per convogliare una selezione di 18 squadre nazionali superstiti a Madrid (in aggiunta alle semifinaliste dell’anno prima, per un totale di 24 team) presso la cosiddetta Caja Magica, dove si svolge già il locale torneo open. E dove su campo sintetico superveloce dovrà uscire fuori la nazione che succederà alla Croazia. La quale, nel suo annus mirabilis 2018, oltre alla finale dei mondiali di calcio ha conquistato quel trofeo che la vecchia Jugoslavia aveva potuto vedere soltanto da lontano.
Ne è passato di tempo dai gesti bianchi (*) di Dwight Davis sopravvissuti fino ai tempi di Nicola Pietrangeli e quasi a quelli di Adriano Panatta. Come tante cose della nostra vita, il tennis – come l’abbiamo conosciuto ed a cui ci siamo appassionati quando da sport d’elite si trasformò in sport di massa – è andato ormai nell’archivio storico. Anche se non è detto che lo sport che gli è subentrato finisca per avere lo stesso fascino. Chissà se la vecchia insalatiera rilucidata con i prodotti del gruppo Kosmos quel fascino che ci teneva svegli per aspettare le immagini in bianco e nero provenienti dall’Australia riuscirà a mantenerlo.
Intanto, con un altro punto Seppi & c. sono qualificati per la fase finale di Caja Magica nell’ultima settimana di novembre. Forza Italia. Ma che tristezza e che nostalgia, povera vecchia Coppa Davis.
(*) celebre definizione del gioco coniata da Gianni Clerici
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