Olimpiadi

Al Gay Pride olimpico

L'oscena ultima cena di Thierry Reboul e Thomas Jolly

C’é troppa frociaggine, ha detto tempo fa un’autorità morale di quelle che pochi ardiscono mettere in discussione o contestare apertamente, a proposito della organizzazione che dirige. Se Jorge Maria Bergoglio anziché il capo della chiesa cattolica fosse quello della repubblica francese, che avrebbe detto?

Sappiamo di essere politicamente scorretti, e siamo consapevoli che ciò nell’Europa che riscopre il gusto barbarico dell’intolleranza travestita da inclusione può condurci di nuovo al rogo come gli eretici di una volta, malgrado secoli di lotta al fanatismo religioso e d’ogni genere che ha preso il via proprio da quella ville lumiere con cui ci siamo sintonizzati la sera del 26 luglio scorso. L’occasione era l’inizio dei giochi olimpici che tornano a Parigi dopo un secolo, dopo quell’edizione del 1924 che è rimasta nel nostro immaginario collettivo come una grande storia, grazie a Hugh Hudson ed ai suoi Momenti di Gloria.

Tornare dove si è sognato o addirittura vissuto bene spesso e volentieri è causa di cocente delusione. Nel caso di Parigi, venerdi scorso è stato disperso un patrimonio plurisecolare per mano di una cialtroneria, una cafonaggine, una ideologia fasulla di regime che fa il paio con quell’incipriato diritto divino che proprio qui, sulle rive della Senna non ancora inquinata da troppe scorie moderne, fu abbattuto dalla Grande Rivoluzione. Che i coreografi dell’ouverture olimpica hanno rappresentato così villanamente, facendo uso del kitsch come se si trattasse di un film di Dario Argento o di un documentario sul Gay Pride.

Come al solito, non è la frociaggine che disturba, per dirla con papa Francesco. Ognuno in casa sua fa quello che vuole, finché non fa del male ad altri. E’ in pubblico semmai che sarebbe il caso di mantenere in vigore un pò di vivere civile, di quella civiltà di cui la Francia pretende a tutt’oggi di essere all’avanguardia. Non è la frociaggine, ma la sua ostentazione. Come qualunque ostentazione provocatoria. All’ora in cui vanno in onda questi spettacoli davanti alla TV ci sono ancora i bambini, e dovrebbe essere un diritto delle famiglie, non dello Stato e di chi lo occupa pro-tempore, stabilire quale educazione impartire loro. A meno che la liberté sia riservata soltanto ai cosiddetti diversi.

Non bastasse l’osceno Gay Pride, adesso ci si mettono le Olimpiadi a trasformare in altrettanto oscene promenades le strade di una nostra giovinezza non ancora del tutto dimenticata vissuta nel segno di una misura occidentale che coniugava progresso e dignità?

Quando passeggiavamo sul LungoSenna, lo facevamo ostentando semmai il nostro rispetto e la nostra ammirazione per una città dove l’uomo moderno aveva imparato a non chinare più la testa (anche perché spesso gliela tagliava la ghigliottina), usandola però quella testa. Su quelle strade adesso sfilano gli orrendi freak del modernismo europeo dove i valori sono quelli putridi smerciati da una UE in cui il francese è ancora lingua ufficiale, anche se nessuno ha più voglia di sentirlo pronunciare, dai Macron, dalle Lagarde, da tutti i venditori di un fumo parigino che non esala più da un arrosto di qualità.

Trans che non si fanno più neanche la barba, uomini vestiti come prostitute del can can riadattato agli stili ed alle mode contemporanee, con la pretesa evidente di fare haute couture. Mostri di ogni tipo, come neanche si trovavano nella Corte dei Miracoli di Victor Hugo. A proposito del quale viene da chiedersi che avrebbe detto alla vista di Notre-Dame rivestita da impalcature da cantiere, quando perfino in Italia in cinque anni si portano a termine i restauri edili più complicati.

Alors….. Non è alla chiesa cattolica che la Francia deve chiedere scusa. Fanatismo contro fanatismo, che si annullino a vicenda. Deve chiedere scusa semmai al mondo intero, che fino a poco tempo fa guardava a Parigi come al luogo della sua anima. E che adesso si chiede se non sia diventata un enorme zoo di Berlino, dove confluiscono non più i migliori intellettuali ed artisti, ma bensì i più inguardabili cialtroni.

La rivoluzione francese in versione splatter

Dovrebbero vergognarsi loro stessi a cantare la Marsigliese. Non sono mai stati maestri di eleganza i nostri cugini transalpini. Per insegnare loro certe buone maniere a tavola ed altrove ci siamo del resto spolmonati per secoli. Per quanto a collo torto, a qualche italiano avevano finito addirittura per dar retta, fossero la regina Caterina de Medici o Leonardo da Vinci. Al loro posto adesso ci sono i rapper di un idioma che neanche si presta. Gente che canta come gli Uruk-Hai del Signore degli Anelli, e si veste anche peggio. Sullo sfondo di ultime cene che sembrano orge, sì, ma dove si servono pasti scadenti come quelli del villaggio olimpico. Con buona pace della nouvelle cuisine e di tutti i suoi palloni gonfiati.

Il 26 luglio scorso è finito il mito della ville lumiere. Restano le pantegane della Senna. Ammesso che siano mai andate via.

Adieu, Paris.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

Lascia un commento