Alla fine è tutta colpa di Platone. Fu lui ad avere l’intuizione che non siamo noi ad adattarci alla realtà circostante, ma piuttosto ci convinciamo che sia la realtà a coincidere con le nostre idee preconcette. Volgarizzando molto, il mito della caverna ci ha condizionati a tal punto che per tutta la vita rincorriamo una realtà che abbiamo solo sognato, quando la nostra anima giaceva appunto nella caverna in attesa di un corpo in cui incarnarsi. Un po’ come lo spermatozoo interpretato da Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, ci facciamo dei film durante quell’attesa, e poi una volta usciti all’aperto, alla realtà vera, viviamo tutta la vita frustrati perché quella realtà non è come l’avevamo vista nel nostro cinema privato. E non ne vuole sapere di diventarlo.
Non si spiega altrimenti l’accanimento con cui i mass media italiani (e non solo, se si pensa che una Rachel Donadio non trova niente di più interessante da inviare come corrispondente al suo New York Times) si rifiutano di venire a patti con la realtà incontrovertibile sancita dal voto popolare. Gli italiani hanno affidato le loro speranze di cambiamento al Movimento Cinque Stelle guidato da Luigi Di Maio ed alla Lega di Salvini come parte della coalizione di Centrodestra. Forte e chiaro. Passo e chiudo.
Dopo mesi trascorsi a raccontarsi – e raccontarci – la favola bella del PD di Renzi e del suo buonismo accogliente, europeista ed ecumenico, che piace al Papa ed ai Re, dal 5 marzo in poi si sono forzatamente riconvertiti alla favola successiva: non può esserci governo senza il PD (grazie Rosato, grazie!), o i 5 Stelle alleandosi con la destra tradiranno il loro elettorato. L’anima grillina è di sinistra, dice l’opinion leader salottiero che rimbalza tra le reti, non può esserci accordo con i razzisti della Lega e con il pregiudicato Berlusconi. Il succo è questo.
Da un mese abbiamo raccontato su queste colonne una favola diversa. Che poi tanto favola non si sta dimostrando, anche se non pretende di essere altro, per il momento almeno. Grillini e leghisti, chiamiamoli così, sono forze antisistema, dove sistema sta per seconda repubblica e mezzo scaturita dal golpe morbido di Napolitano e dai diktat della UE nel 2011. Grillini e leghisti hanno portato come programma d’esame la restituzione del potere al popolo, e il popolo ha capito e li ha promossi. Grillini e leghisti, se non vogliono tradire il mandato popolare, hanno una sola via d’uscita, salendo all’infido Colle per le consultazioni: mettersi insieme, e a casa tutto il resto.
Già, ma così prima o poi vanno a casa anche gli opinion leaders, il sottobosco giornalistico che accompagna quello politico nella conservazione di questo establishment. La kultura di sinistra, che Berlusconi aveva indicato come egemone fin dal 1994 (e che nel frattempo lo è diventata davvero), questo lo sa, e dopo la sponda PD non vorrebbe perdere il posto nel salotto buono dove si fa informazione e approfondimento. E allora sogna, sogna, sogna. E sproloquia.
In queste sere, per antica abitudine che ormai sarebbe ora di superare a detta del gastroenterologo, ci facciamo del male guastandoci la cena con l’accompagnamento dei programmi informativi e di approfondimento della 7. Che non è più quella agile, obbiettiva, giornalisticamente americaneggiante, dei tempi di Antonello Piroso, per capirci, ma piuttosto il cimitero degli elefanti RAI. Dalla Gruber, a Mentana, alla Tortora a Formigli, tutto quanto non fa giornalismo va in onda tra le 20,00 e la seconda serata, a raccontare un mito della caverna tutto suo particolare. Con gli ospiti fissi, e mai usciti anche loro dalla caverna, Marco Travaglio, Andrea Scanzi, Vittorio Zucconi, Beppe Severgnini, Massimo Franco, Marco Da Milano, Luca Telese e compagnia cantante. Se ci scappano un Paolo Mieli o un Alessandro Sallusti sono una insolita concessione ad un minimo di bon ton bypartisan, da spendere la sera che non c’é da rompere le scatole a Salvini o a qualche leghista. Sono ospiti che capiscono di politica quanto la Lilli Gruber di educazione e di conduzione televisiva, ma va bene così. Come una certa classe politica, una certa classe giornalistica si sta avviando all’uscita.
Più sorprendente è semmai il controcanto da destra. Anche nel campo superstite dell’informazione non omologata a sinistra c’é chi vorrebbe continuare a sognare una egemonia di Berlusconi, e non gli va giù che Di Maio ponga discriminanti e che Salvini non le rifiuti a prescindere. Sbotta Vittorio Feltri: la patria di Galileo non può pendere dalle labbra di Di Maio. Come dire, a centrocampo dopo Rivera non posso far giocare Carlo Rubbia, o Renzo Arbore. A Firenze si chiama mescolare il fondoschiena con le Quarant’ore, e fa specie che il direttore di Libero, solitamente così arguto, nella circostanza sia così a corto di argomenti.
Toccherà farsene una ragione, a tutti. Perfino a Mattarella, che sognava consultazioni di tipo più mediterraneo, atmosfere gattopardesche care a lui ed alla sua terra. Perché nulla cambi, tutto deve cambiare. Ma anche Tomasi di Lampedusa ormai farebbe andare d’accordo il suo principe di Salina con il nuovo grillino e leghista che avanza, così come lo fece andare con i Garibaldini. Qualcosa stavolta deve cambiare davvero, o la parola passa a forze più eversive.
In Europa, non solo in Italia, c’é una gran voglia di menare le mani. E c’é tanta carne al fuoco per arrivare a farlo. I nostri giornalisti, e quelli che dall’America vengono mandati qui perché non stiano lì tra i piedi, come gli Alan Friedman e le Rachel Donadio, sarebbe bene che se ne rendessero conto. Finché i migranti vengono rincorsi dalla gendarmerìe francese come a Bardonecchia, puoi sempre chiamare l’ambasciatore di Macron e chiedergli spiegazioni. Quando la rincorsa parte dalla gente inferocita, le spiegazioni non te le dà più nessuno. Le manganellate sì.
Ma questo, Di Maio e Salvini lo sanno. E tanto basta, per ora.
P.S. Il titolo è una citazione del libro di Marco Ferrari: Alla rivoluzione sulla Due Cavalli (1995, Palermo, Sellerio Editore)
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