Da sinistra: Jim Lovell, Ken Mattingly e Fred Haise, l’equipaggio dell’Apollo 13
«Houston, we had a problem. Abbiamo avuto un problema.»
Dopo l’allunaggio dell’Apollo 11 ed il piccolo grande passo di Neil Armstrong sulla superficie del nostro satellite, le missioni successive avevano soltanto un modo per passare alla storia come altrettanto importanti, ed agli occhi del pubblico per apparire come qualcosa di più di una semplice routine: che qualcosa andasse male.
La legge di Murphy (se qualcosa può andare storto, lo farà) non è tra quelle che regolano il moto degli astri né alcun altro fenomeno della Fisica. Ma gli astronauti dei Programmi Mercury e Gemini la conoscevano bene, fin da quando avevano avviato la corsa allo spazio per conto degli Stati Uniti d’America, circa un decennio prima. Il tributo di sangue richiesto dallo sforzo americano di riprendere e superare l’Unione Sovietica era stato ingente, ed era sembrato arrestarsi soltanto quando la fase decisiva, il Programma Apollo, era entrata nel vivo.
Il 6 agosto 1969, mentre Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins si riprendevano dalle fatiche della storica impresa della missione numero 11 e mentre Charles Conrad, Richard Gordon e Alan Bean cominciavano a prepararsi per la missione n. 12 che avrebbe ripetuto quell’impresa in novembre, la NASA comunicò l’equipaggio della missione n. 13, destinata a decollare da Cape Kennedy nell’aprile dell’anno successivo.
A leggere quel comunicato, era chiaro che qualche contrattempo doveva avere avuto luogo. Al comando della missione era stato nominato Jim Lovell, un veterano dei voli spaziali che aveva preso parte a diverse missioni Gemini e soprattutto all’Apollo 8, la seconda navicella della storia con a bordo un equipaggio umano e la prima a lasciare l’orbita terrestre per navigare in quella lunare.
Lovell aveva tutti i numeri ed anche le giuste ambizioni per quella nomina. Aveva dovuto cedere il passo a Neil Armstrong, una leggenda dell’epopea spaziale americana già prima di mettere piede sul Mare lunare della Tranquillità, e se le cose fossero andate secondo i programmi anche stavolta avrebbe dovuto cedere il passo. Ad Alan Shepard, che in quanto a leggenda era pressoché pari ad Armstrong, esendo stato il primo uomo a stelle e strisce a volare nello spazio, il 5 maggio 1961, 23 giorni dopo il primo in assoluto, il sovietico Yuri Gagarin.
Ma Shepard aveva un handicap, che si riacutizzò nel periodo antecedente la missione. Soffriva della sindrome di Menière, una condizione per cui la pressione aumenta progressivamente nell’orecchio interno causando un sostanziale aumento della sensibilità dei canali semicircolari e del rilevatore di movimento, con disorientamento, stordimento e nausea. Questa condizione lo aveva costretto a vedersi negata l’idoneità di volo dopo il 1964 in cui gli fu diagnosticata. Nel 1969 non stava meglio, e dovette lasciare via libera a Lovell.
La nomina di quest’ultimo, per quanto meritata, era dunque un ripiego dovuto ad un contrattempo, e fu un primo segnale che la dea bendata era in procinto di volgere spalle agli eroi dello spazio americani. Il 6 aprile 1970, a cinque giorni dal decollo della missione Apollo 13, il pilota designato del modulo di comando Ken Mattingly risultò non immune alla rosolia il cui contagio si era diffuso in quel periodo tra il personale addetto alla missione. Mattingly dovette rimanere a terra sostituito da John Swigert, il pilota di riserva. Circostanza che si sarebbe rivelata determinante nei giorni successivi, ma che al momento fu vissuta come il secondo di troppi contrattempi.
Il terzo contrattempo si era verificato due settimane prima del lancio, ed era sembrato quello meno significativo sul momento. Durante la prova generale del countdown, il conto alla rovescia, erano state compiute tutte le operazioni (compreso il riempimento dei serbatoi) che poi sarebbero state ripetute prima del vero lancio. A prova conclusa i serbatoi dovevano essere svuotati; in particolare l’ossigeno liquido avrebbe dovuto essere spinto fuori dal serbatoio da ossigeno gassoso pompato attraverso un apposito tubo costruito per quell’unico scopo.
Ci si accorse però che il serbatoio n. 2 non riusciva a svuotarsi. Il tubo di drenaggio si era danneggiato per un urto subito due anni prima durante lavori di manutenzione che sembravano tuttavia in un primo tempo non aver provocato danni. Evidentemente non era così, si valutò che comunque quell’inconveniente non avrebbe influito sul funzionamento in volo e che una sostituzione del serbatoio avrebbe provocato un ritardo leggero ma sufficiente a far perdere la finestra di lancio. Venne dunque decisa una procedura alternativa: far uscire l’ossigeno (tenuto normalmente a temperature inferiori a -200 ºC) riscaldandolo oltre la sua temperatura di ebollizione mediante accensione delle resistenze interne al serbatoio. Lo stesso Lovell, a cui spettava la decisione finale in qualità di comandante, autorizzò la procedura. E per poco mal non gliene incolse.
L’11 aprile 1970 l’Apollo 13 decollò da Cape Canaveral, che allora si chiamava Cape Kennedy. L’illusione che contrattempi e difficoltà fossero ormai superati durò poco. Durante il lancio, uno dei motori del vettore Saturn V ebbe un malfunzionamento che costrinse il computer di bordo ad escluderlo costringendo gli altri quattro a funzionare più a lungo del normale. Poteva essere già quella la tragedia che comprometteva la missione e le vite umane in essa coinvolte, come già era successo in passato. Il motore fu invece riacceso durante la fase orbitale attorno a la Terra e la deviazione dalla traiettoria ottimale per la rotta verso la Luna risultò minima, e facilmente recuperabile.
Non c’é due senza tre, e a quel punto Apollo 13 doveva aver esaurito le carte sfortunate nel suo mazzo e poter procedere verso il completamento della missione senza ulteriori rovesci della sorte. Ma la Legge di Murphy era decisa a soverchiare quelle della Fisica, in quei giorni, e dette luogo alla sua dimostrazione più chiara e lampante alle quattro di mattina (ora della Florida) del giorno 14. L’ora in cui fu pronunciata da Swigert la storica frase che sarebbe rimasta come emblema di quell’evento. A partire da quei quattro giorni in cui un intero pianeta si sarebbe raccolto in preghiera per la salvezza dei tre uomini dispersi nello spazio.
Houston, abbiamo avuto un problema, qui. Il problema era stato l’esplosione di quel benedetto serbatoio 2 che evidentemente non si era mai ripreso del tutto dal lieve incidente di due anni prima. Durante una manovra di routine richiesta all’equipaggio dal Controllo Missione, i cavi di collegamento del serbatoio andarono in corto circuito. Il resto lo fece l’ossigeno che esso conteneva, infiammandosi e danneggiando anche un altro serbatoio.
Con due serbatoi superstiti su quattro, di raggiungere la superficie lunare non se ne parlava più. La missione fu riprogrammata in orbita attorno alla Luna e ritorno a casa. Come se fare anche soltanto questo fosse a quel punto una cosa facile. Per i tre uomini dell’Apollo 13 c’era ossigeno sufficiente soltanto nel LEM, (Lunar Excursion Module, il modulo di allunaggio), nel quale si trasferirono seguendo le direttive che ricevevano da Houston.
I problemi a quel punto erano tre. Il LEM era progettato per due persone, la terza sovraccaricava i sistemi, a cominciare dai filtri dell’anidride carbonica, che dovettero essere riadattati utilizzando il materiale di bordo con notevole ingegno da parte dei tecnici del controllo missione (in primis quel Mattingly che adesso partecipava da terra alla drammatica lotta per la sopravvivenza dei dei suoi compagni) e dello stesso Fred Haise, il terzo uomo a bordo, comandante del LEM.
Il secondo problema era che i motori del LEM erano progettati per accendersi una volta sola, quella in cui il modulo doveva ripartire dal suolo lunare a missione compiuta. Con il modulo di servizio fuori uso, i propulsori del modulo lunare erano gli unici che potevano mantenere gli astronauti in traiettoria di ritorno a terra. Murphy in quel caso non ebbe da ridire, ed i propulsori funzionarono fino alla fine. Il terzo problema era appunto la deviazione dall’orbita ottimale, che fu possibile correggere mentre l’Apollo sorvolava la faccia nascosta della Luna.
Il mondo intero seguiva incollato alla televisione lo svolgersi del dramma, che fu praticamente il primo evento di tal genere a copertura televisiva e rilevanza planetaria. L’euforia dei giorni di Armstrong & compagni avevano lasciato il posto all’angoscia ed alla preghiera.
Tra tanta sfortuna, gli uomini di Apollo 13 ebbero una fortuna sola, ma determinante. L’avaria aveva avuto luogo nella fase iniziale della missione, quando ancora le riserve di ossigeno, di materiali e di risorse – anche psicologiche – erano ancora sostanzialmente intatte.
Arrivati per grazia di Dio in prossimità del rientro in atmosfera, gli uomini dell’Apollo si ritrasferirono dal LEM, destinato a bruciare per l’impatto con l’atmosfera stessa, nel modulo di comando.
Il 17 aprile 1970 alle 13,07 ora della Florida, l’Apollo 13 o quello che ne restava impattò l’atmosfera terrestre sperando di avere l’angolo di rientro giusto. Furono gli ultimi momenti drammatici di una missione che di drammatico aveva avuto tutto, o quasi. Durante il rientro nell’atmosfera era previsto un silenzio radio che di norma non andava mai oltre i 3 minuti. L’Apollo 13 fece mancare la sua voce alla NASA e al mondo per ben sei minuti, facendo temere che fosse stato tutto inutile.
Ma Ulisse quella volta superò indenne le Colonne d’Ercole. L’ultimo modulo dell’Apollo ammarò al largo delle Isole Samoa americane, dove la portaerei USS Iwo Jima aspettava Lovell, Swigert e Haise per prenderli e riportarli a casa. Un ultimo contrattempo si mise di mezzo prima dell’ammaraggio: uno dei paracadute si inceppò non potendo essere espulso e quindi rischiando di destabilizzare il modulo durante la pericolosa discesa verso l’oceano. Il sistema di sicurezza ausiliario funzionò, espellendo il pezzo difettoso e mettendo fine alle peripezie della più sfortunata delle missioni spaziali americane almeno fino alla tragedia dello Space Shuttle del 1986.
I tre uomini uscirono dal boccaporto di Apollo mescolandosi a quelli della USS Iwo Jima. E raccogliendosi con questi in una preghiera collettiva di ringraziamento a cui si unirono le case di tutto il mondo, nelle quali il televisore aveva funzionato ininterrottamente per quattro giorni.
Quattro giorni che – se ce n’era bisogno – ricordarono all’Uomo, che una volta aveva sognato le favole più affascinanti a proposito di quella Luna che rischiara il suo cielo notturno, che la strada per arrivare a quel sogno di favoloso poteva avere poco o nulla. E che come tutti i viaggi che egli aveva compiuto dall’alba dei suoi tempi, poteva finire in tragedia per un’inezia qualsiasi. Per un capriccio di uno qualsiasi degli Dèi che quei suoi viaggi continuavano a sfidare.
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