I sindaci di Roma sono come le ciliegie, uno tira l’altro. E’ il turno di Walter Veltroni (pronuncia: Uolter, da quando ha scoperto le sue ascendenze kennediane).
E’ un altra di quelle personalità poliedriche che nella vita non hanno combinato una mazza su più fronti. Rimasto orfano in tenera età, ha deciso di farla pagare al mondo buttandosi in politica e poi scrivendoci sopra anche dei libri. L’ultimo, Quando, è stato un flop clamoroso. La gente sfila davanti allo scaffale, lo guarda e passa oltre, sibilando a denti stretti: mai.
Militante per oltre vent’anni in un partito con il quale non c’entrava un tubo, il P.C.I., nominato direttore dell’Unità nel 1995 si rese conto che non era un giornalista e si iscrisse almeno a scuola. Per ristabilire un legame con il padre scomparso prematuramente che si era occupato di cinema, prese a distribuire con il giornale tutte le settimane la cassetta di un film di quelli che non andava a vedere nessuno, nemmeno nei più infami cineforum.
Inventore del buonismo, teorico del ma anche (alcuni dicono che il relativismo culturale contro cui si sarebbe scagliato in seguito Papa Ratzinger sia colpa sua, noi crediamo piuttosto che il suo pensiero sia da ascrivere alla nota corrente del cerchiobottismo), fu a fianco di Prodi in quella immane cazzata che risponde al nome di Ulivo per ben due volte, nel 1996 e nel 2006. Nell’intervallo fu eletto sindaco di Roma (e te credo, in concorrenza aveva Antonio Tajani), carica nella quale si distinse per aver combinato ancora meno dei predecessori. L’unico risultato che gli si ascrive è la creazione di un festival cinematografico assolutamente inutile (se non per le produzioni di sinistra che dal tempo del governo Prodi di cui lui era vice vengono finanziate direttamente dallo Stato) e che fa concorrenza a quello di Venezia come nessun festival straniero avrebbe saputo fare.
Stanco di fare da controfigura a Prodi, al quale lo accomunano l’espressività, la simpatia riscossa tra la gente e la forma stessa del cranio, decise di fondare un partito suo e lo chiamò Democratico, sognando forse di fare la fine di JFK (e forse, chissà, andandoci vicino, almeno a Roma). Vi si impegnò come segretario per un breve periodo, giusto il tempo di prendere una trombata alle elezioni del 2008 e decidere con sollievo generale di levarsi dai marroni, mollare tutto e andare in Africa. Dove ognuno da allora lo immagina nel pentolone dell’indigeno con tanto di osso tra i capelli, e pazienza se non è politicamente corretto.
Tempo fa si è sparsa la voce di un suo ritorno in politica, ancora nel PD. Subito le azioni di Renzi hanno avuto un’impennata, risalendo prepotentemente sulla base della nota teoria filosofico-politica che al peggio non c’é mai fine. Si diffuse anche la voce di un suo impiego alla Federcalcio, poi decaduta perché di peggio che non andare più ai mondiali non può succedere.
Lo mettereste nel presepio? Al primo ma anche, le pecore si mettono in fila verso l’uscita, i pastori passano tutti ai Cinque Stelle. Arrivano quelli di Report a denunciare la cementificazione del presepio, peggio che nel Comune di Roma ai suoi tempi. La Madonna e San Giuseppe si incazzano dopo aver trovato Gesu bambino a leggere Senza patricio. Ma il colmo si tocca quando arrivano i Magi, e lui si rivolge a Baldassarre chiamandolo signor Presidente Obama.
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