Sembra che il celebre aforisma secondo cui «in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti» non sia da attribuire ad Andy Warhol. Di sicuro è fuori discussione la paternità dell’altrettanto celebre «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli», attribuito ad Umberto Eco.
L’informatica ha dotato tutti gli abitanti del pianeta di una tastiera, ed attraverso quella della possibilità di entrare in comunicazione con il resto del mondo. Quasi mai, per dire la verità, anche con se stessi.
Tutti hanno adesso la chance di lasciare traccia di sé sul web, depositandovi i propri pensieri o i commenti ai pensieri altrui. Molti lo fanno senza aver pensato veramente, men che meno a cosa stanno lasciando dietro di sé. A differenza di qualsiasi altra attività umana, l’informatica – non obbligando al confronto vis à vis con interlocutori e con istituzioni in carne ed ossa – privilegia l’istintività. Davanti ad una tastiera ognuno diventa un leone, o quantomeno un libero e (auto)stimato pensatore.
Il combinato disposto dei postulati di Warhol ed Eco definisce una nuova antropologia. Il suo ambito di ricerca è internet, e specificamente quell’ecosistema costituito dai social networks. E’ in essi che l’umanità, la nuova umanità dotata di protesi informatiche, a quanto pare dà il peggio di sé.
Ma se Facebook, il capostipite, si barcamena tra una vicissitudine e l’altra (oggi una evasione fiscale, domani una violazione alla privacy, domani l’altro ancora una campagna per la moralizzazione dei contenuti) uscendone sempre fuori – per ora – più forte della somma delle sciocchezze che ospita quotidianamente, a mostrare la corda è Twitter, la piattaforma nata per consentire a tutti, ma proprio a tutti, di sintetizzare ed esprimere un pensiero e consegnarlo ai posteri.
La prima operazione è facile, per molti – considerato che ortografia, punteggiatura e grammatica sono diventate più vintage dei dischi in vinile a 45 giri – 140 caratteri sono anche troppi, due pensieri più complessi devono fare manovra incontrandosi nel cervello, e poi l’hashtag, la boiata di tendenza stabilita quotidianamente dagli opinion leaders, non si conta. La seconda, esprimere, è più complessa, perché la sintassi ormai è vintage come i dischi a 78. Poi c’é l’educazione, che nello specifico si chiama netiquette, perché fa più trendy. E lì son dolori, meno male che una recente sentenza della Cassazione ha depenalizzato gli insulti (meno quelli alle autorità costituite che si chiamano vilipendio) derubricandoli a scarico di stress.
Ma a quanto pare, la corda tirata da Twitter è arrivata al punto di rottura. E’ notizia recente che affonda addirittura a Wall Street. E lì non ci sono santi. I titoli della società che cinguetta perdono il 12,45%. A scatenare il default sono le parole di Citron Research, società di analisti e vigilantes del web, che ha definito la piattaforma nientemeno che «l”Harvey Weinstein dei social media». Il giudizio arriva dopo quello di Amnesty International, che l’ha chiamata un «luogo tossico per le donne».
Viviamo in tempi di #metoo, grazie a cui un mondo difficile già di per sé è diventato ancora più difficile. A dire la verità, al netto della psicosi avviata dalla scoperta delle imprese sessuali di Weinstein (e dalla marcia che è stata avviata a seguito di esse da tante gentili signore), pare di poter dire che Twitter è tossico erga omnes, per tutti. E le donne che vi accedono non mostrano più garbo degli uomini, quanto ad atteggiamenti, linguaggio e – in una parola – profilo.
Ma le campagne puritane, soprattutto quando partono dai puritani Stati Uniti, difficilmente risparmiano qualcosa o qualcuno, una volta avviate. L’esercito di Umberto Eco è lì, in agguato, pronto a marciare contro la stessa mano che l’ha nutrito – o sguinzagliato – fino al giorno prima.
A quanto pare, ci siamo giocati anche l’Uccellino. Absit iniuria verbis, nessuno veda – neanche per quindici minuti – alcun doppiosenso nelle nostre parole.
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