In ogni compagine governativa ce n’é uno, o una. Anche l’attuale non fa eccezione. Parliamo della persona giusta nel posto sbagliato, del talento sprecato ad occuparsi di una materia lontana dalla propria competenza.
Giulia Bongiorno sarebbe stata un grande, grandissimo ministro della giustizia, anche se probabilmente – proprio per il fatto di conoscere e padroneggiare la giustizia, e soprattutto sapere benissimo quali sono i difetti del nostro sistema giudiziario – non avrebbe raccolto il benestare di alcuno degli addetti ai lavori di tale sistema. E forse è per questo che, non volendosene comunque privare, il governo gialloverde l’ha cooptata delegandole la materia del riordino della pubblica amministrazione. Ritenendola magari, per faciloneria indotta dalle cronache quotidiane, materia limitrofa a quella di cui era tagliata su misura per occuparsi.
Giulia Bongiorno piomba sulla pubblica amministrazione e sui suoi veri e presunti furbetti con l’impeto e l’atteggiamento di un magistrato inquirente, proprio lei che nasce avvocato di difesa. «Mi rifiuto di chiamare malcostume l’uso improprio del cartellino: è reato, reato di truffa aggravata», dice il ministro per la Pubblica Amministrazione accompagnando al voto in Senato il Ddl Concretezza, che tra le altre cose prevede un piano per la moralizzazione della P.A. e la lotta spietata ai suddetti furbetti nel presupposto che ciò basti a renderla più efficiente.
«Di fronte a un reato abbiamo il dovere di intervenire», prosegue la Bongiorno rispondendo alle critiche su un eccesso di controllo e sulla violazione della privacy. «La privacy e la riservatezza – sottolinea – sono un bene protetto ma da bilanciare con altri beni. Per me il bene che deve prevalere è la correttezza di chi entra in ufficio».
Oggetto delle critiche è la volontà espressa nel decreto di ricorrere – per combattere la cosiddetta falsa attestazione di presenza in servizio e quant’altro di illegale connesso – a gadgets che finora siamo stati abituati a vedere, e giustificare, nei film di James Bond. Quello delle impronte digitali pare a molti un accertamento eccessivo, in un paese tra l’altro dove non si riesce a portare in aula di tribunale la minima prova scientifica, perché o inquinata o comunque compromessa o attenuata da mancanza di altri riscontri oggettivi.
Prossimo passo? La prova del DNA e lo scanner della retina, in luogo della vecchia cartolina da timbrare o all’atto dell’accensione della workstation? La voce, rigorosamente femminile, suadente o gelida a seconda del comportamento del dipendente, che dà il buongiorno al log in matitiniero o l’arrivederci al log off serale, e che lo incoraggia o richiama per tutta la giornata lavorativa ad ogni tasto digitato sulla tastiera o ad ogni alzata dalla sedia della postazione?
Si rischia il probabile errore giudiziario come nel caso di Bossetti o una deriva verso il film di fantascienza – legal thriller che potrebbe finire per rendere la nostra pubblica amministrazione ancora più ridicola? Una commedia alla Lino Banfi innestata su un plot drammatico alla John Grisham? Su una cosa si può essere tutti d’accordo, fautori del legal – ministro e non: la Bongiorno sta proseguendo sulla strada intrapresa dalla Madia, che di talento ne aveva poco e di confusione in testa tanta.
I furbetti del cartellino esistono perché prima di loro e sopra di loro esistono i furboni: gli amministratori e i dirigenti degli uffici che dovrebbero controllare i dipendenti e la loro produttività reale (e qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo poco lusinghiero per chi ci governa), e che avrebbero avuto gli strumenti per farlo anche prima del decreto Madia. Ma se ne sono guardati sempre assai bene, perché ciò avrebbe comportato prima di tutto essere presenti in servizio a loro volta, e poi magari non cointeressati agli sgarri come a volte, se non spesso, succede.
Il caffè delle 10,30 sarà anche un danno erariale insostenibile, o addirittura una truffa e un reato odiosissimi, come dice la ministra Bongiorno. Ma si tratta semmai di valutarne l’impatto sui costi pubblici avendo a riferimento dieci minuti rapportati a stipendi sempre più esigui, minimalisti, mentre i veri danni erariali ed eventualmente le vere truffe sarebbero semmai da calcolare su stipendi e incarichi di portata economica assai superiore. E poi, la solita questione: i controllori chi li controlla? Forse nel prossimo Ddl la Bongiorno introdurrà la lettura del pensiero? Ci conviene istituire un Grande Fratello se poi come tutti i Grandi Fratelli lui fa quello che gli pare e a te non lo permette più, nemmeno al gabinetto?
Nessun datore di lavoro privato, neanche il meno – diciamo così – garantista nei confronti dei sottoposti, arriverebbe mai a escogitare un giro di vite come questo. Il caffé di mezza mattina ti restituisce una persona rinfrancata, ristorata, e dalle 10,40 in poi la produttività torna a risalire. Basta non approfittarne, ma nemmeno pretendere che i videoterminalisti, per esempio, trascorrano la pausa prevista dalla medicina del lavoro a guardare il soffitto senza alzarsi dalla loro sedia.
Agire dopo aver riflettuto sarebbe già un bel programma politico, condivisibile da tutto l’arco costituzionale. Lasciamo la lotta a truffe e reati agli ambiti di applicazione dove se ne trovano realmente, invece di attingere al solito bacino di pesca dove si spende poco e si porta a casa tanto, in termini di capri espiatori da esporre al pubblico ludibrio: quello dei pubblici dipendenti.
E soprattutto lasciamo quella lotta alle persone giuste al posto giusto. Come ad esempio una Giulia Bongiorno eventualmente rimessa ad occuparsi della materia di cui si intende di più.
Chi serve lo Stato serve anche te. E un caffè al momento giusto può darti un servizio migliore. Pubblicità Progresso.
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