Avvento 2019

Avvento 2019 – Giorno 12

Al suo paese, a Pomigliano d’Arco, lo chiamano Giggi ‘o parlettiero. Il web è stato impietoso: «My name is Luigi of Maio», recita una vignetta che gira dalla sua investitura a ministro degli Esteri.

Sembrava il grillino con meno grilli per la testa. L’unico in grado tra i suoi – malgrado, anzi, forse proprio grazie a quella sua parlantina sciolta e inarrestabile – di fare proposte politiche di senso compiuto, oltre che di tagliarsi i capelli a garbo e farsi un nodo alla cravatta. L’unico presentabile, in un movimento di impresentabili e di arruffoni, a cominciare dal fondatore Beppe Grillo, o di inquietanti e altrettanto spettinati scienziati da Ritorno al futuro come Gianroberto Casaleggio & son.

Gigino Di Maio parla tanto, anche per i gusti dei suoi conterranei, ma fino a poco tempo fa di sciocchezze vere e proprie almeno ne diceva relativamente. Era più noto per le gaffes, alcune epocali. Come quando accusò Matteo Renzi di comportarsi come aveva fatto Pinochet in Venezuela. O quando definì la Russia un grande paese del Mediterraneo e la Francia un paese di tradizione democratica millenaria (con ciò anticipando la Rivoluzione Francese ai tempi di Carlo Magno). Il presidente della Cina in bocca a lui era diventato amichevolmente Ping, ma questi non se la prese e non gli fece fare pong. Anzi, Di Maio da quando è passato agli Esteri in Cina ci va spesso, più spesso del suo predecessore Marco Polo sulla Via della Seta.

Di Maio e "Ping"

Di Maio e “Ping”

Ricordandosi di essere stato per una breve stagione al ministero del Lavoro, e forse per smentire i suoi detrattori che sostengono la sua assoluta incompetenza in materia (su Linkedin si trova praticamente soltanto il suo periodo da bibitaro allo Stadio San Paolo di Napoli), uno di questi giorni ha ribattuto piccato: «Io vado in Cina a creare posti di lavoro!». Se questi posti sono come quelli lasciati in eredità all’ILVA, c’é poco da essere rassicurati per la verità. L’uomo che aveva sconfitto la povertà ed en passant anche la disoccupazione, aveva consegnato alla storia la soluzione della questione Taranto con la famosa e lapidaria frase «noi abbiamo risolto in tre mesi ciò che altri non hanno saputo risolvere in trent’anni». All’ILVA per la verità sono rimasti soltanto tre giorni, forse non ci eravamo capiti sui decimali.

E’ un uomo dalle intuizioni fulminanti, il giallo capace di passare dal verde al rosso con la velocità di un semaforo. Dopo la crisi dell’8 agosto, pare che se ne sia uscito con l’orgoglioso proclama: «andiamo alle elezioni!» Pare che Grillo lo abbia rimesso a sedere con l’altrettanto celebre frase: «non siamo più neanche in doppia cifra, ma dove c…… vuoi andare?»

Quando il bis Conte lo passò agli Esteri, sfidando le ire della Merkel che già si vedeva trasferita la propria capitale da Berlino a Varsavia (sono pur sempre grandi paesi del mediterraneo anche questi, keine sottilizazionen, non stiamo a sottilizzare….), l’ILVA è rimasta sul groppone ad altri, la povertà è rimasta sconfitta, adesso Gigino si occupa di scacchieri e strategie mondiali.

LuigiDiMaio191212-002Vediamolo all’opera. Alla millenaria democrazia francese sta sulle scatole da quando voleva mettersi il gilet giallo e andare a fare il grillino con il sedere dei parigini. Su Israele pende la spada di Damocle di un riconoscimento (ovviamente sulla piattaforma Rousseau) dello Stato di Palestina. Ping non si sa di che umore è, ma il visto per Pechino continua a rinnovarglielo. Meno male che Pinochet è morto altrimenti gli avrebbe intentato querela per motivi di diffamazione a mezzo geografia.

La sensazione è che Conte, dopo avergli fatto un breve ripasso a proposito di capitali, confini, monti, fiumi e laghi, lo abbia messo agli Esteri perché lì di danni ne fa pochi. Notoriamente, la politica estera italiana non conta una mazza. Tanto a Bruxelles, l’unica capitale che è necessario conoscere per il nostro attuale governo, se c’é bisogno ci va il capintesta.

Nel frattempo, #DiMaioagliEsteri è un hashtag pressoché fisso su Twitter. Carlo Calenda lo definisce il miglior rappresentante della «nostra rinuncia ai valori di serietà e competenza». L’attuale governo ha dei ministri senza portafogli (casomai usano i nostri), ma Di Maio è un ministro senza atlante e senza congiuntivo. Dopo la povertà, ha sconfito anche la grammatica.

LuigiDiMaio191212-004Come ha fatto notare di recente spostandosi in ambito scientifico, «noi esseri umani abbiamo il nostro corpo costituito al 90% di acqua». La sensazione è che all’interno del suo movimento la percentuale sia ancora più alta. E che in tutta quest’acqua lui sia l’unico che finora riesca a galleggiare.

Ad ogni buon fine, intanto, Beppe Grillo nelle sue ultime apparizioni in video se lo tiene accanto, a portata di scapaccione. Così, casomai gli saltasse per il capo il grillo di dire qualche altra boiata.

 

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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