Gianni Agnelli era l’Avvocato. Enzo Ferrari l’Ingegnere. Lui è stato soprannominato il Professore. Non è il primo, a cominciare da quello (Amintore Fanfani) che Gianfranco Piazzesi contrappose a Enrico Berlinguer nel 1975, per la creazione del compromesso storico. Non sarà l’ultimo, ma è di sicuro quello che ha dato una connotazione negativa al soprannome. Grazie a lui, di professori prestati alla politica non ne potevamo più anche prima di sperimentare Giuseppe Conte.
Romano Prodi era un enfant prodige della Democrazia Cristiana. A quarant’anni era già accreditato come uno dei massimi esperti di economia di questo paese. Uno dei ministri più giovani di sempre, quando Andreotti gli affidò il dicastero dell’Industria, Commercio ed Artigianato nel suo quarto governo, quello che ebbe la fiducia del Parlamento il giorno in cui Via Fani si macchiava del sangue della scorta di Aldo Moro.
Proprio a proposito di Moro, Prodi si rese protagonista di una vicenda che avrebbe dovuto dirla lunga sul personaggio. Il 2 aprile 1978, mentre mezza Italia cercava il Presidente della DC rapito dalle BR, Prodi organizzò a casa sua in provincia di Bologna nientemeno che una seduta spiritica assieme a vari e variopinti personaggi (tra cui quell’Alberto Ciò con cui avrebbe fondato la rivista Energia e più avanti da una costola di questa le cosiddette Sardine). Per celia o per non si sa bene cos’altro, i negromanti riuniti a casa del ministro ebbero dal fatidico bicchierino (lo spirito evocato era quello nientemeno che di Giorgio la Pira, altro personaggio assai noto di un certo spiritualismo democristiano, venuto a mancare allora di recente) la risposta Gradoli. E fecero perdere a forze dell’ordine anche troppo compiacenti (o comunque in preda a stato confusionale, volutamente o meno) tempo prezioso. In Via Gradoli a Roma o a Gradoli sul Lago di Bolsena, Moro non c’era e non fu trovato.
Sarebbe dovuto rimanere agli atti che Prodi era un arruffone, altro che personalità eminente del mondo accademico. Invece il Professore ebbe affidato nientemeno che l’I.R.I., l’Industria a partecipazione statale, che negli anni 80 versava già in pessime condizioni. Era l’82, l’anno in cui il mentore di Prodi, Beniamino Andreatta, l’economista principe della DC, si guadagnò il celebre epiteto di comare di ballatoio litigando pubblicamente con toni da pescivendolo con il suo omologo socialista Rino Formica. Risultato, la caduta del primo governo a guida laica della storia repubblicana, quello di Giovanni Spadolini. Craxi e De Mita ringraziarono, Prodi ereditò la leadership economica di Andreatta mantenendosi l’I.R.I. per diversi anni, preparando ciò che avrebbe combinato nel decennio successivo con le privatizzazioni.
Il Professore sopravvisse a Mani Pulite ed alla fine della DC ed essendo un uomo per tutte le stagioni gli furono affidate due mission impossible degli anni novanta: ostacolare la discesa in campo di Berlusconi e convincere la comunità nazionale che il nostro destino era nella Zona Euro. Al primo compito provvide con la fondazione dell’Ulivo, il rassemblement omnicomprensivo in cui confluirono i reduci della DC, quelli del PCI (l’unico compromesso storico che abbia mai funzionato, con buona pace di tante coerenze individuali) e tutto il sottobosco dei movimenti, movimentini e movimentucoli che avevano affiancato e punzecchiato da destra e da sinistra i due partiti maggiori che adesso fondavano una Balena Unica.
Al secondo compito provvide raccontando novelle, come quella che grazie all’Euro ed alla UE «avremmo lavorato tutti un’ora in meno guadagnando come se lavorassimo un’ora in più». O quella che con le privatizzazioni avremmo avuto anche in Italia il libero mercato e servizi più efficienti.
Nel frattempo, D’Alema ci credeva talmente tanto alla sua leadership ed alle sue favole economiche che se lo levò dai piedi detronizzando il suo governo (1996-1998) e spedendolo a guidare la neonata Commissione Europea. Di quel periodo si ricordano due cose, Corrado Guzzanti che gli fa il verso in modo impareggiabile («Io sono super partes, non mi ha votato nessuno, sto sul c….. a tutti», recitato con la voce da moribondo del Professore diventata ormai proverbiale), e l’appellativo di Mortadella che cominciò a sostituire il soprannome originale.
Alla sua faccia perennemente atteggiata ad un grasso sorriso da insaccato emiliano non portava turbamento niente, nemmeno i primi riscontri di quanto ci sarebbe costato quel benedetto Euro. Mentre diveniva chiaro che avremmo lavorato di più, guadagnato di meno e la differenza se la sarebbero intascata i tedeschi, Prodi fondò imperterrito il Partito Democratico, e lo portò ad una nuova esperienza di governo che durò quanto la prima e si concluse allo stesso modo. Fu Mastella stavolta ad uccidere Prodi come Maramaldo aveva fatto con Francesco Ferrucci, trafiggendo un uomo già morto, anzi, che si dubitava fosse mai nato. La mortadella finì a fette, e a Palazzo Chigi tornò Berlusconi trionfante.
Da allora Prodi lavora ad altri progetti, alcuni in Africa, dove ha preceduto personalità eminenti e concludenti quanto Walter Veltroni e Alessandro Di Battista, ma di recente è tornato ad organizzare danni qui in Italia. Le Sardine sono roba sua. Il progetto di farne il quinto presidente della repubblica consecutivo di area sinistrorsa invece è del partito che lui stesso ha fondato. Ci ha già provato nel 2013, e per scongiurare l’eventualità ci beccammo un Napolitano bis. L’unico sollievo sarebbe la loquela che concilia il sonno, dopo sette anni di retorica sibilata da Mattarella con i suoi messaggi trasversali alla nazione, gli italiani almeno avrebbero di che riposarsi le orecchie.
E potrebbero anche ritrovarsi a condividere la sua vecchia passione, la bicicletta. Come i cinesi di 40 anni fa, sarebbe più o meno ciò che il nostro tenore di vita dovrebbe consentirci grazie a tutto ciò che il Professore ci lascerà in eredità.
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