Tre anni fa in questi giorni l’Italia che non era morta democristiana scopriva che non sarebbe morta neanche renziana. La valanga dei NO alla riforma costituzionale Renzi – Boschi andò ben oltre la mera questione (peraltro non da poco) della difesa di una Costituzione invecchiata ma pur sempre garantista da maldestri tentativi di riforma ad uso e consumo nemmeno di una parte politica, quanto addirittura di una consorteria. Si trattò piuttosto della risposta degli anticorpi di un paese intero ad una infezione che aveva rischiato fino a quel momento di minarne irreparabilmente la già precaria salute.
L’era Renzi era stata breve, ma intensa. Terribilmente intensa. La dialettica del leader uscito dalle kermesses radical chic fiorentine della Leopolda; le sue poche idee ma confuse ed esposte con convinzione all’apparenza inossidabile (come la tolla di certe facce); l’entusiasmo dei Giovani Turchi renziani che sentivano di avere in mano l’avvenire e si preparavano alla inquietante rottamazione di chi avesse anche soltanto pochi anni (e qualche esperienza) più di loro; tutte queste cose sembravano destinate a impiantare nel nostro paese uno di quei regimi millenari che si affacciano nella storia ogni tanto.
Andò diversamente. Renzi prese un ceffone di quelli che avrebbero stordito e messo KO un gorilla. La sera in cui avrebbe dovuto annunciare urbi et orbi la nuova Costituzione ed i suoi poteri quasi pieni come primo presidente del consiglio della Terza e definitiva Repubblica, era lì invece aggrappato al leggio su cui giacevano i suoi appunti per il discorso delle dimissioni. Un discorso ancora più in tono minore di quello con cui Fanfani aveva annunciato la resa quarant’anni prima in occasione di analogo, epocale referendum, quello sul divorzio che aveva traghettato finalmente l’Italia nel novero delle nazioni civili e non più clericali.
A parteggiare per il leader sconfitto quella sera c’era giusto la moglie, addossata ad una parete, in disparte. Mezza Italia gongolava, e l’altra mezza si chiedeva chi diavolo glielo aveva fatto fare, negli anni precedenti, di prestare orecchio alle bombe di questo affabulatore da sagra di paese e di scambiarlo per l’unica speranza della nostra nazione. Salva per miracolo, a quel punto.
Le dimissioni erano pro forma, era già pronto il prestanome Gentiloni a far finta di succedere al suo capo, che peraltro non aveva nessuna voglia di lasciare la politica come promesso in caso di sconfitta. Anche se il PD rialzò la testa (pur immeritatamente, avendo campato prima di Renzi, di leadership ancora più impresentabili) e da quel momento si organizzò per metterlo ai margini della Direzione.
Molti sostengono che se un altro Matteo, il Salvini della Lega, non avesse messo in crisi il governo gialloverde nell’agosto scorso, il Renzi del PD sarebbe stato destinato ad una ibernazione perpetua. La crisi invece gli dette lo spunto per risorgere, ed eccolo di nuovo qui, più vivo dell’Italia Viva che ha fondato subito dopo, mordendo la stessa mano che lo aveva nutrito e fino a quel momento risparmiato da sanguinose vendette interne.
La storia della carriera politica di Renzi sembra scritta da Lev Tolstoj. Resurrezione, potrebbe intitolarsi, sottotitolo: e più di una volta. Chi lo conosce dai tempi del Liceo – il Dante di Firenze – racconta di uno studente talmente simpatico e benvoluto dai suoi compagni da finire nei cassonetti della spazzatura un giorno sì e quell’altro pure. Entrato in politica, è riuscito a suscitare le stesse passioni a livelli sempre più alti. Vinse una elezione a sindaco di Firenze presentando in pratica il programma dell’avversario, il molto più carismatico Giovanni Galli, vecchia gloria di diverse Fiorentine del passato. A quell’epoca aveva già la magistratura addosso per certe sue azioni in qualità di presidente della Provincia di Firenze (il cursus honorum di Renzi è partito direttamente dall’arrivo). Per un paio di anni fece il sindaco e basta, e neanche troppo male. La nevicata del 2010 – roba da The day after tomorrow – lo sorprese al pari di quasi tutti i suoi concittadini. Lui reagì alla sua maniera, schierando fino alla primavera successiva in Piazza della Stazione tutti gli spalaneve in dotazione all’amministrazione comunale. Inutile dire che quell’anno non nevicò più, anche la Natura si ribellava al nuovo che avanza ed a colui che la voleva rottamare al pari dei vertici PD.
Come Alì contro Frazier, sfidò alle primarie una prima volta il detentore Bersani nel 2012, e ne buscò. L’anno dopo ci riprovò e quella volta si portò a casa la corona del partito democratico. L’anno dopo ancora, dopo aver detto al presidente del consiglio Enrico Letta di stare sereno, gli sfilò serenamente il campanellino che spetta all’inquilino di Palazzo Chigi. Per i tre anni successivi, i problemi e le angosce che erano state di Firenze divennero quelli di tutto il paese.
La Costituzione alla fine salvò le penne, mantenendo tra l’altro quel Senato a cui si fece eleggere nel 2018 proprio colui che avrebbe voluto abolirlo. Il resto è storia recente. L’Italia divisa in due: chi ce l’ha con Renzi Matteo e chi ce l’ha con Renzi Tiziano.
Renzi Matteo che risorge grazie a Salvini Matteo e non appena Zingaretti Nicola si fa incastrare al governo con il Joker e il Fanfarone, ecco Renzi Matteo detto il Bomba che lascia il partito pur sostenendo il governo. A quel punto, chissà mai perché, la gente ha smesso di stare serena quando si tratta di lui. Non appena si mette in proprio, ecco che si muove Magistratura Democratica ufficialmente a vederci chiaro su una certa fondazione Open (soprattutto, pare, nella contabilità) che finanziava negli anni d’oro le attività del senatore di Rignano.
Sulla dialettica democratica tra poteri dello Stato non ci si capisce più niente, e forse è proprio questo il senso della riforma costituzionale renziana, vittoriosa nella sostanza al di là della sconfitta referendaria di tre anni fa. Renzi appare l’unico che sa che cosa vuole: gioca per Renzi, e basta. Gli altri fanno tutti un gran casino. Ma forse questo è il nostro kharma nazionale.
C’é una cosa però che non perdono a questo kharma, o a chi ne sia il responsabile a qualsiasi livello, anche cosmico: sulla questione della magistratura ad orologeria difficile dargli torto, così come prima di lui a Berlusconi.
Ecco, mi doveva toccare anche questa: essere d’accordo con Matteo Renzi. No, questo non me lo dovevano fare.
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