Quando salì sul palco del Teatro Ariston insieme a Wilson Pickett e attaccò le prime note di Un’avventura, era arrivato il suo momento. E tutti, il grande pubblico e non più soltanto gli appassionati di musica e la gioventù di Bandiera gialla e di Alto gradimento – in cerca di una colonna sonora alla propria ribellione – si resero conto che no, non lo sarebbe stata. Cominciava qualcosa che era molto di più.
Lucio Battisti era già Lucio Battisti dal 1961. Da quando suo padre, impiegato al dazio nella natìa Poggio Bustone (era nato il 5 marzo 1943, un giorno dopo Lucio Dalla), gli aveva regalato una chitarra, come molti padri e madri facevano con i ragazzi di allora. Salvo poi arrabbiarsi come belve e minacciare di rompergliela sul groppone, quando i figli si dimostravano più attaccati a quella chitarra che ai libri di scuola.
Lucio accontentò alla fine il padre, diplomandosi all’Istituto Tecnico Industriale Galileo Galilei di Roma. Dopodiché, come figlio di invalido di guerra aveva diritto all’esenzione dal servizio militare, e chiese ed ottenne dal padre di poter spendere quei due anni di vita guadagnati tentando la sua strada nella musica. Era un autodidatta della chitarra e della musica stessa, aveva quella voce un po’ così, che non coincideva con i canoni del bel canto di allora e non aveva ancora beneficiato della nouvelle vague pop rock che avrebbe sdoganato cantautori e cantanti di ogni genere. Bastava che avessero qualcosa da dire, un messaggio, e le parole e la musica giusta per dirlo.
Battisti con la musica ci sapeva fare, era un perfezionista degli accordi e consumava le corde della sua chitarra provandoli e riprovandoli. Gli serviva soltanto un paroliere che gli mettesse a disposizione testi che non aveva nessun altro, poesia da mettere in musica.
Nel 1962, il laziale trapiantato a Roma Lucio Battisti si trasferì a Milano per seguire il suo complesso di allora, i Campioni. Una scelta di vita che l’avrebbe accompagnato fino alla fine. In Lombardia, dove aveva da allora vissuto, sarebbe venuto a mancare il 9 settembre 1998, nella villa di Molteno in provincia di Como in cui si era ritirato da anni, in fuga da uno star system del quale volente o nolente era diventato il numero uno.
A Milano nel 1965 aveva fatto due incontri fondamentali: i talent scouts della Casa Editrice Ricordi, e Giulio Rapetti in arte Mogol. Con il quale avrebbe formato un sodalizio leggendario. Le parole di Mogol si adattavano alla musica di Battisti, e viceversa, come le figure del Tetris. Cominciarono a produrre successi, inizialmente destinati ad altri, come l’Equipe 84 che sbancò con 29 settembre e i Dik Dik che fecero altrettanto con Dolce di giorno.
Nel 1969, i venti della contestazione e della ribellione giovanile soffiavano ormai impetuosi. I cantautori rivaleggiavano ormai apertamente con parolieri e cantanti classici, e i giovani che si raccoglievano attorno a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni ed alla Hit Parade radiofonica erano in cerca del loro menestrello. Lo trovarono, ma la storia cominciata sul palco dell’Ariston quell’anno, anche se non sarebbe stata un’avventura sarebbe stata una storia difficile come tutta quella di quegli anni.
Quel ragazzo dalla voce strana aveva deciso giustamente di gettarla in pasto al pubblico cantando in proprio le canzoni sue e di Mogol. Ebbe ragione, tre mesi dopo affrontava una schiera di fans (e di critici) a Speciale per voi, la trasmissione RAI concessa al giovanilismo dirompente e condotta da un Arbore che non vedeva l’ora di scoprire a sua volta talenti.
Fu un impatto dirompente quello di Lucio con il suo pubblico. Gli stessi che accolsero a braccia aperte la sua musicalità nuova e la sua voce così particolare, poco tempo dopo gli si rivoltavano contro perché non era impegnato. E cominciò il dramma generazionale degli anni 70. Quello di tanti ragazzi che, come chi scrive, erano costretti ad ascoltare Lucio Battisti, che ad ogni uscita si confermava il più grande, quasi di nascosto. Perché se ti piaceva Battisti eri un fascista.
La storia e i pezzi di successo di Battisti sono patrimonio comune, non ripetiamo qui elenchi, titoli e circostanze che conoscono tutti. Perché della adolescenza e della giovinezza di tutti sono stati l’impareggiabile colonna sonora. Lui era il più grande, lui ci faceva stringere il cuore come nessun altro, lui trasformava la poesia di Mogol in quel qualcosa di più ancora che lo pareggiava alle Rime di Dante Alighieri, al Canzoniere del Petrarca. Non era la poesia che ci facevano studiare a scuola. Era, ormai non si bestemmia più a dirlo apertamente, addirittura migliore.
Quando Lucio era all’apice, a metà anni Settanta, la timidezza che non lo aveva mai abbandonato lo portò a negare definitivamente la sua faccia così semplice ed accattivante alle telecamere ed ai riflettori. Sparì nel 1973, e da allora nessuno se non i suoi familiari lo ha più visto, fino a quel giorno in cui la notizia della sua morte, esattamente venti anni fa, ci piegò in due come un cazzotto dolorosissimo. Come se fosse morto un nostro fratello maggiore, a cui avevamo voluto un bene dell’anima, al suono della cui voce ci eravamo cullati per tutti gli anni in cui da ragazzini eravamo faticosamente cresciuti e diventati uomini. Con i sentimenti educati da lui.
Gli anni di piombo, gli anni in cui a seconda del modo in cui aprivi bocca per respirare eri fascista o comunista, erano finiti da un pezzo. Gli anni d’oro di Lucio anche. Ad un certo punto si era stancato di se stesso e del proprio successo ormai garantito e si era messo a fare sperimentazione musicale, abbandonando Mogol per Pasquale Panella e le sue parole così diverse.
Non si può dire che fosse peggio, ma è come confrontare il David Bowie di Ziggy Stardust, di Lodger, di Heroes con quello successivo. Un artista raggiunge un culmine irripetibile, e poi semplicemente si assesta su un gradino subito sotto. Sempre lui, ma non è più quel lui, di quel momento, che lascia quei rintocchi nel nostro cuore.
Quando morì, ci accorgemmo che avevamo impiegato troppo tempo a fare pace con noi stessi e con quei sentimenti che aveva scatenato in noi, o anche semplicemente cantato da par suo. Gli altri sono passati tutti, lui rimane. Vent’anni dopo ragazzini e ragazzine nati quaranta/cinquanta anni dopo di lui fischiettano ancora le sue canzoni, innamorandosi al ritmo della metrica dei suoi versi e mandando allo stesso diavolo dei loro padri quel mondo impegnato, politicizzato che avrebbe voluto da lui un messaggio e per fortuna non l’ha mai avuto.
Vent’anni dopo, Mogol parla ancora di lui come di uno sposo che l’ha lasciato vedovo, perché quel sodalizio non era ricomponibile con nessun altro.
Vent’anni dopo, se volete, potete ancora chiamarle Emozioni.
Lascia un commento