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Bentornato zio Donald

In principio fu Ronald Reagan. L’ex attore e poi governatore della cinematografica California sorprese il mondo vincendo nel 1980 elezioni presidenziali che i progressisti intendevano ancora come facenti parte dell’onda lunga smossa dal Watergate. Reagan ebbe la meglio sul gentiluomo georgiano Jimmy Carter, e soprattutto sul ricordo del duro repubblicano Nixon, tricky Dick, l’uomo che non aveva giocato pulito e che aveva ridicolizzato le istituzioni come mai nessuno dai tempi di George Washington.

Non toccate ad un americano la sua Costituzione, la sua bandiera e gli altri suoi simboli storici. Magari a malapena sa leggere e scrivere e non sa nulla di geografia, ma la sua storia la conosce bene, gliela fanno studiare eccome. E soprattutto conosce bene i suoi diritti, quelli messi su carta da Thomas Jefferson.

Reagan spezzò diversi monopoli politici. Per diventare presidente non importava più essere figlio della Ivy League o dei Wasp della East Coast, né dell’agricolo e poco brillante ma solido Midwest, né del petrolifero Texas che dopo Fort Alamo aveva espresso soltanto personaggi poco raccomandabili.

Reagan mise fine alla Guerra Fredda mettendo sotto sia il nemico interno, la contestazione post 68, che quello esterno, l’URSS. Quando lasciò otto anni dopo, il mondo stentava a ritrovare un senso essendo cambiato irrimediabilmente. Dopodiché per vent’anni i presidenti americani hanno annaspato cercando invano l’ennesima Nuova Frontiera.

Bush padre mise su una Guerra del Golfo che come tante altre guerre americane del dopoguerra mondiale non poteva verosimilmente vincere. Clinton condivise la sua scrivania nella stanza ovale con Monica Lewinski piuttosto che con consiglieri che tentavano di spiegargli che a ben vedere il mondo si stava incasinando di nuovo, in Europa e in Medio Oriente. Bush figlio ebbe la strada asfaltata dalle Torri Gemelle, ma non essendo Franklin D. Roosevelt non seppe farne una nuova Pearl Harbor a tutti gli effetti. Dall’11 settembre 2001 gli USA di politica estera non ci hanno capito veramente più nulla.

Poi ci fu Obama, e a parte il saldo del debito storico accumulato con gli afroamericani, il progressismo statunitense portò a casa ben poco. Obama era un altro sconsiderato messo lì nella sala ovale e nella stanza dei bottoni. Nessuno credette veramente alla cattura di Bin Laden, o all’Obamacare. In compenso molti temettero che dopo di lui ci fosse da pagare un altro debito, assai più salato: quello con la moglie tradita Hillary Clinton.

Donald Trump è arrivato alla ribalta sull’onda di tante cose. Bisogna conoscerli veramente gli americani e non ragionare su di loro con parametri e categorie mentali europee. Il sogno americano esiste nel DNA statunitense da ben prima che gli scienziati del MIT scoprissero i segreti del genoma umano.

Trump prometteva e manteneva la ripresa dell’economia violentata dai democratici e dalle bolle speculative. Trump prometteva buoni rapporti con tutti, ma tenendo in mano quel randello dietro la schiena che era già stato di Theodore Roosevelt. A Trump piacevano – e piacciono – le donne, ma come il nostro Berlusconi se le corteggiava e se le pagava se del caso con soldi suoi, non con denaro pubblico come molti altri colleghi. Trump prometteva di mettere un freno all’immigrazione incontrollata e clandestina, e ciò piaceva agli yankees come a tutti coloro che nei paesi dell’area NATO fronteggiavano il medesimo problema.

Trump rispondeva ai problemi del ventunesimo secolo con le risposte che i cittadini volevano sentirsi dare. Trump vinse le elezioni nel 2016 sorprendendo soltanto i merli che stavano sull’albero a cantare. Merli tra cui gracchiavano cornacchie come Nancy Pelosi e Hillary Clinton. Che comunque, come hanno dimostrato, non si sono rassegnate.

Dopo quattro anni di Joe Biden siamo di nuovo come nel 2016, con la differenza che adesso sappiamo esattamente quali sono le alternative. Gli elettori americani rimpiangono l’economia che andava a palla con lo zio Donald e che arranca con lo zio Joe. Rimpiangono i confini più rigidi e le leggi più severe, e il perché lo sanno loro, che vivono dagli anni trenta in città invivibili al di là di ogni nostra immaginazione. Rimpiangono perfino i GI spediti in varie parti del mondo, ad impedire il ritorno dei Talebani in Afghanistan ed almeno due guerre che con Trump non ci sarebbero state: quella russo – ucraina (con Putin lo zio Donald si sarebbe messo d’accordo in cinque minuti, e lo dice apertamente) e quella che sta complicando la questione arabo – israeliana chissà per quanti anni a venire.

Dice che lo Iowa che stanotte ha dato il via alla riscossa dei repubblicani, che a collo torto si stanno rassegnando a correre nuovamente dietro al centravanti di sfondamento Donald Trump, è uno stato confessionale. Gli Evangelisti votano per avere l’aborto proibito nel loro stato. Vero o no, è buffa la concezione della democrazia che hanno a sinistra ad ovest come ad est dell’atlantico: funziona solo quando l’elettore vota come vuole il potente. Altrimenti è fascista o avventista del settimo giorno.

Trump sembra scampato alla trappola messagli di fronte il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill dallo Sciamano e da quella banda di infiltrati da servizi deviati (ce li hanno anche loro) che fecero finta di protestare per l’esito di elezioni probabilmente non del tutto genuine, diciamo così. Del resto, se pensi che ci siano stati dei brogli e la Corte Suprema neanche ti sta a sentire, che cosa puoi fare?

Tornare alle vecchie schede elettorali cartacee, prima possibile, come dice senza mezzi termini Trump. Con quelle, imbrogliare è quantomeno più faticoso. Con buona pace dell’Intelligenza Artificiale e di chi come i democratici pensava che si sarebbe felicemente impadronita di questo pianeta. O forse di averlo già fatto.

Bentornato zio Donald. Bentornato zio Sam.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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