Era il 20 febbraio 1986. La notizia ebbe il risalto che meritava. L’ennesimo cambio di proprietà dell’Associazione Calcio Milan. La società che forse aveva più tribolato in uno dei periodi più tribolati della storia del calcio italiano.
Dopo lo scudetto della stella nel 1979, per il Diavolo – così veniva soprannominata per motivi araldici la società rossonera, una delle più importanti e blasonate già all’epoca – si erano aperti anni di piombo. Dapprima la retrocessione (con lo scudetto ancora cucito sulla maglia) a causa del Calcioscommesse, poi il tracollo finanziario seguito al tentativo disperato di recuperare nel ranking un posto adeguato alla propria storia. In quello scorcio di inverno 1986, l’A.C. Milan veniva da una serie di passaggi di mano, che avevano visto succedersi una serie di figure apparentemente di primo piano ma in realtà assai problematiche ed a loro modo anche tragiche.
Dopo Felice Riva, il primo grande bancarottiere della storia dell’imprenditoria italiana del dopoguerra, trascorso l’intermezzo di Franco Carraro e gli anni d’oro di Rivera & c. il Diavolo era finito in mano al petroliere con il vizio del gioco d’azzardo Albino Buticchi. Poi fu la volta di Vittorio Duina, industriale metallurgico dalle molte cambiali in protesto. Quindi era stata la volta di Felice Colombo, altro milanese rampante che nel giro di soli dodici mesi era passato dall’altare come presidente della stella alla polvere dell’arresto per il coinvolgimento nel Calcioscommesse con annessa retrocessione della squadra in B.
Per finire, era poi toccato a Giuseppe Farina detto Giusy, l’uomo che disse no alla Juventus per Paolo Rossi quando era presidente del Lanerossi Vicenza. Facendo quasi fallire la società a causa del buco di bilancio aperto dalla quotazione messa in busta per Pablito e poi versata alla Juve (rimasta sorniona in attesa del suicidio vicentino). Due miliardi e mezzo di lire, un record per l’epoca. Un dissesto totale, che dal Lanerossi il buon Giusy trasferì al Milan rilevato nell’82 da Colombo, e poi anche ad altre sue aziende. Tanto da essere costretto alla fine ad una fuga in Sudamerica per sfuggire alle maglie della giustizia. Non prima di aver riportato il Milan un’altra volta in B, e stavolta per meriti sportivi.
Quella mattina di febbraio di 31 anni fa, quando i quotidiani intitolarono Il Milan a Berlusconi, sembrava l’ennesimo capitolo di una telenovela dal copione shakespeariano, con monarchi decaduti e finiti male insieme al loro regno, chi transfuga, chi suicida, chi morto comunque malamente, chi semplicemente rovinato.
Nessuno poteva immaginare anche lontanamente che si apriva un capitolo completamente diverso. Che il Diavolo, con Silvio Berlusconi, stava bussando alle porte del Paradiso.
Berlusconi era allora un imprenditore emergente nel panorama nazionale e non solo. Al suo attivo poteva vantare già alcune cospicue realizzazioni, una fra tutte la rottura del monopolio televisivo pubblico in Italia. All’epoca delle telelibere seguita alla liberalizzazione delle frequenze, ci avevano – e ci avrebbero -provato in molti, ma solo lui ci era riuscito.
Dicevano i suoi detrattori, già all’epoca in costante ascesa, che il suo successo era dovuto principalmente all’amicizia (non solo personale) con l’uomo politico più importante e discusso dell’epoca: Bettino Craxi. Il segretario socialista aveva stoppato sul nascere l’iniziativa della magistratura di abbuiare le cosiddette reti Fininvest nel 1984, permettendo probabilmente a Berlusconi di sopravvivere. L’antipatia che il tycoon milanese cominciò ad attirarsi allora addosso era dunque inizialmente di riflesso, onda lunga di quella di cui era fatto oggetto Craxi.
Due anni dopo, il nuovo presidente rossonero poteva presentarsi non come l’ultimo di quelli che non ce l’avrebbero fatta, ma come colui che avrebbe cambiato decisamente il corso delle cose. Della storia stessa.
Il 18 luglio 1986 il nuovo proprietario dell’A.C. Milan si presentò ai suoi tifosi all’Arena di Milano atterrando con il suo elicottero privato sul prato. Una scena da Apocalipse Now, mutuata dal cinema americano più ad effetto, con tanto di adeguata colonna sonora, La Cavalcata delle Valchirie, diffusa dagli altoparlanti dell’Arena. Il film che andava a cominciare, per gli aficionados rossoneri, sarebbe stato un grandissimo film, da incetta di premi Oscar. Come quei titoli di testa potevano solo in parte far prefigurare.
Due anni dopo, il primo scudetto, sfilato nientemeno che al Napoli di Maradona avviato a fare un clamoroso bis. Un anno dopo ancora, la prima Coppa dei Campioni, vent’anni dopo l’ultima vinta da Gianni Rivera. Berlusconi aveva aperto un ciclo mettendo da parte nientemeno che il guru Nils Liedholm, affidandosi allo sconosciuto Arrigo Sacchi, ad una vecchia guardia di ragazzini italiani provenienti dalle giovanili, ad una banda di olandesi capaci di arrivare dove nemmeno la vecchia gloriosa Olanda di Cruyff era arrivata: a vincere tutto, e contro tutti.
Nel frattempo, anche per l’Italia cominciava una storia diversa. Silvio Berlusconi sarebbe passato da essere imprenditore amico di quello che conta a essere quello che conta in persona. Il Presidente del Milan sarebbe diventato Presidente del Consiglio, e fra i tanti conflitti di interesse che gli sarebbero stati ascritti da allora in poi questo sarebbe stato vissuto dall’opinione pubblica come non secondario.
La leggenda dell’uomo che trasformava in oro tutto quello che toccava si sarebbe arricchita di nuovi, affascinanti e controversi capitoli. Ma quello colorato di rossonero sarebbe rimasto per tutti il più eclatante, il più emblematico della parabola umana di questo imprenditore dell’economia e della politica che forse non ha avuto eguali o equivalenti nella storia del paese.
Silvio Berlusconi per 31 anni è stato il Milan. Al punto di oscurare mostri sacri, stelle apparentemente impareggiabili come Gianni Rivera. Per circa vent’anni ha vinto tutto, rivaleggiando e spesso surclassando in Italia competitors formidabili come la Juventus e all’estero squadroni che anche alla sua epoca facevano tremare il mondo come adesso. Un nome su tutti, il Barcellona di Romario con Cruyff in panchina che ne prese 4 in finale di Coppa dei Campioni ad Atene aveva ben poco da invidiare a quello attuale di Messi, Neymar & c. Il Liverpool di Benitez che nel 2005 rimontò 3 gol ad Istanbul era un signor Liverpool, eppure per un tempo era stato scherzato, ridicolizzato dal Milan di Ancelotti. Che aveva finito per farsi rimontare e superare ai rigori soltanto per eccessiva sicurezza di sé. Giustificata, in fondo, a quei tempi.
Nel 2007 ancora Liverpool, ancora Atene. La rivincita, la vittoria nella Coppa con le orecchie nel frattempo ribattezzata Champion’s League giusto un anno dopo il titolo mondiale di Berlino aveva illuso non solo i supporters rossoneri ma tutto il mondo del calcio italiano di poter prolungare all’infinito l’epoca d’oro, quella in cui il mondo, il resto del mondo doveva farsi da parte per stare a guardare atleti italiani che sollevano coppe. Italiani vincenti, di successo.
Era il canto del cigno, e nessuno poteva saperlo. Come era cominciata, a sorpresa, vent’anni prima, a sorpresa finiva. La favola del Re Mida di Arcore si avviava al tramonto, al declino, anche se non ancora alla conclusione. Nel 2011 Berlusconi perdeva il potere, l’unico errore – come diceva Montanelli – che i suoi connazionali non perdonano mai a nessuno, ed il Milan (che di quel potere era stato causa o effetto a seconda dei punti di vista negli accesi dibattiti pro e contro) si avviava a ritornare nei ranghi come una delle tante squadre che guardavano la Juventus da dietro, mentre fuggiva verso una impressionante serie di scudetti.
Nel comunicato diramato ieri a commento del closing finalmente perfezionato in data 13 aprile 2017, si legge: «Lascio oggi, dopo più di trent’anni, la titolarità e la carica di presidente del Milan. Lo faccio con dolore e commozione, ma con la consapevolezza che il calcio moderno, per competere ai massimi livelli europei e mondiali, necessita di investimenti e risorse che una singola famiglia non è più in grado di sostenere. Non potrò mai dimenticare le emozioni che il Milan ha saputo regalarmi e regalare a tutti noi».
Già, proprio così. Nessuno potrà dimenticare. Ma la storia è cambiata di nuovo, e stavolta in peggio. Una singola famiglia non ce la fa più, in un paese che non ce la fa più. Che sta ritornando, come all’epoca del Rinascimento, terra di conquista e di razzia. Mentre le sue Signorie più illustri decadono ad una ad una, gli stranieri vengono qui a sollevare i loro trofei e gli italiani stanno da parte, a guardare.
Sarà lavoro per gli storici, quando le passioni si saranno sufficientemente raffreddate, stabilire con esattezza chi è stato Silvio Berlusconi e cosa ha fatto per questo paese. Ma almeno sul Milan possiamo metterci d’accordo fin da adesso.
Parla l’Albo d’Oro. 8 scudetti, 5 Champion’s League, 3 Coppe Intercontinentali, 5 Supercoppe europee, 7 Supercoppe italiane, 1 Coppa Italia. 28 trofei complessivi. Nel 2007, all’indomani dell’ultima Champion’s, il Diavolo era il club più titolato al mondo, adesso si attesta al terzo posto dopo la parziale remuntada del Real Madrid e dell’Al-Ahly, la Juventus egiziana.
La storia dunque è passato di mano per 600 milioni di euro circa. Ma la storia, si sa, si può comandare. Il cuore no. Il closing ha messo fine a molto più di un’epoca.
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