Stephen Bantu Biko (King William’s Town, 18 dicembre 1946 – Pretoria, 12 settembre 1977)
Erano tempi difficili non soltanto in Sudamerica, per chi lottava per la libertà e i diritti civili e politici delle popolazioni diverse da quella bianca. In Africa nei primi anni settanta esplose il caso del Sud Africa, dove da sempre governava la minoranza bianca di origine anglo olandese (i cosiddetti Boeri). Quel governo, a mano a mano che nel Continente Nero procedeva la decolonizzazione, si era inasprito al punto da diventare una vera e propria dittatura di stampo – appunto – sudamericano, e da meritarsi di essere indicato con un aggettivo che sarebbe diventato presto sinonimo di quanto c’era di più odioso all’epoca: Apartheid.
All’inizio degli anni Settanta, il regime di Pretoria non era più tollerabile per nessuno. Né per il Commonwealth, la comunità delle ex colonie britanniche che l’aveva messo al bando, né per gli Stati Uniti, dove l’attivismo delle Pantere Nere e degli altri gruppi anti-segregazionisti consigliava ormai all’opinione pubblica di andare verso il superamento della questione razziale, né per la comunità internazionale nel suo complesso, che prese ad escludere il Sud Africa da qualsiasi consesso o manifestazione politici, civili, sportivi.
Nelson Mandela era in galera a Robben Island da quasi dieci anni quando Stephen Biko, socialista e nazionalista sudafricano, fondò il Black Consciousness Movement, il Movimento per la Coscienza dei Neri. Se Mandela era stato pericoloso per il regime in quanto sostenitore del braccio armato dell’African Congress, l’Umkhonto we Sizwe, il movimento intellettuale di Biko era considerato addirittura più pericoloso, articolato com’era nelle sue organizzazioni politiche, sindacali e studentesche. Mandela aveva mirato alle braccia dei suoi connazionali di razza nera. Biko mirava alle loro teste.
La polizia sudafricana ebbe dunque ancor meno pietà e riguardi con Stephen Biko di quanti ne aveva avuti con Nelson Mandela. Nell’agosto del 1977 l’attivista fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Port Elizabeth per quasi quaranta giorni, durante i quali fu sottoposto a pesanti interrogatori e sevizie. Durante l’ultimo di questi, gli furono procurate gravi lesioni al cranio, che portarono alla sua morte avvenuta il 12 settembre 1977.
La polizia tentò di dire che Biko era deceduto a seguito di uno sciopero della fame, ma la verità trapelò quasi subito. Malgrado ai giornalisti fosse impedito di divulgarla (e nessuno intentasse alcun procedimento contro i poliziotti assassini né allora né in seguito, anche dopo la fine dell’Apartheid), la figura di Stephen Biko emerse subito come quella di un martire della lotta contro la discriminazione razziale in Sudafrica.
I suoi funerali si trasformarono in una manifestazione di massa, come era successo poco prima in Grecia per quelli di Alekos Panagoulis, ed il mondo della musica si mobilitò per lui.
Nel 1980 Peter Gabriel incise e gli dedicò una delle sue canzoni più suggestive, poi ripresa dai Simple Minds e da Joan Baez. La versione più celebre del brano comincia e finisce con le registrazioni di due canzoni sudafricane, Ngomhla sibuyayo e Senzeni Na?, cantate al funerale di Biko.
Quando nel 1987 il regista britannico Richard Attenborough realizzò il film Grido di libertà, che racconta la storia degli ultimi giorni di Steve Biko, interpretato da Denzel Washington, Gabriel riadattò il video della sua canzone del 1980 con alcune scene del film.
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