Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d’armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, dell’VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Armando Diaz
Narra la leggenda, una di quelle leggende che non possono essere certificate negli archivi storici per ovvi motivi, che all’annuncio dello sfondamento definitivo del fronte da parte dell’esercito di cui era a capo, il generale Armando Diaz d’istinto commentasse, strizzando gli occhi da miope davanti ad una cartina militare che rappresentava il fronte, “Ma ‘sto Vittorio Veneto addo‘ cazzo sta?”
Armando Diaz era di Napoli, si era fatto la Prima Guerra Mondiale al comando del III Corpo d’Armata di cui era stato a capo fino alla meta del novembre 1917. Il fronte l’aveva visto poco e lo conosceva ancora meno, allorché il Re d’Italia duce supremo dell’esercito italiano lo investì del comando generale. Erano i giorni della rotta di Caporetto, la guerra sembrava compromessa. Nessuno poteva immaginare che un anno dopo più o meno negli stessi giorni saremmo stati a celebrare una vittoria. Bene o male la più grande vittoria militare (a tutt’oggi) dell’esercito dell’Italia unita. Favorita, è vero dallo spostamento di equilibrio bellico causato dall’arrivo delle truppe americane nonché dal crollo (soprattutto economico) degli Imperi Centrali con la dissoluzione improvvisa ed immediata dell’Austria-Ungheria. Ma pur sempre una grande vittoria. Non solo perché riuniva finalmente alla nostra Patria le cosiddette terre irredente, Trento e Trieste. Ma anche perché dava, nel bene e nel male, finalmente alla nostra identità nazionale una base di valori fondanti su cui costruire finalmente lo sviluppo successivo, sia civile che politico ed economico.
Una vittoria comunque pagata a caro prezzo: 650mila morti e 450mila mutilati, più di 3 milioni di reduci da riciclare nella vita civile. Proprio quest’ultimo si rivelò il lascito più pesante della Grande Guerra alla società italiana. La fragile struttura del nostro tessuto sociale non era destinata a reggere (come avevano ampiamente previsto statisti lungimiranti come Giolitti e Turati) alle spinte poderose infertele dal Biennio Rosso (sull’onda della rivoluzione bolscevica) e dalla reazione nera, che portò nel 1922 all’affermarsi del regime fascista di Benito Mussolini. Proprio i reduci dalle trincee, sollecitati a non ritrovare facilmente un posto nella vita civile da un clima più ostile che mai nonostante la vittoria, ebbero una parte non secondaria nello squadrismo che aprì la strada alla dittatura.
Ma questa è storia successiva a quel 4 novembre 1918. Ed era storia ormai lontana (e volutamente insegnata poco e male), all’epoca in cui quelli della mia generazione erano bambini e si trovavano a celebrare quella giornata di festa a scuola. Che festa è? chiedevamo agli adulti? La risposta era breve, concisa e lapidaria: la Vittoria.
C’era una vittoria sola nella nostra memoria collettiva, quella conquistata sulle trincee delle Dolomiti e del Carso dai nostri nonni. Orgoglio di quanti di loro erano sopravvissuti per tornare a celebrarla ogni anno, e di noi bambini che stavamo a bocca aperta a sentir ripetere ogni anno i loro ricordi indelebili ed affascinanti.
La festa della vittoria non sopravvisse alla Riforma Falcucci del 1977. Il Governo Andreotti scoprì di punto in bianco che avevamo troppe feste nel calendario, e una delle prime a saltare fu proprio lei, la Vittoria. Peccato, perchè quel giorno di festa – che si aggiungeva a tanti, è vero – era particolare e faceva parte a pienissimo titolo della nostra Educazione Civica. La Patria faticosamente e sanguinosamente ricostituita non aveva retto moralmente all’8 settembre 1943, e meno ancora avrebbe retto alla demolizione sistematica dei valori operata dagli anni 1968 e seguenti.
Sono passati gli anni, i nonni se ne sono andati. Nessuno racconta più alle nuove generazioni del fango e del sangue della trincea, e del perché nonostante qualcuno molto autorevole l’avesse definita una Inutile Strage quella guerra, quella Grande Guerra, era a distanza di tanto tempo e di tanti cambiamenti culturali e sociali motivo di orgoglio per tutto il popolo che l’aveva combattuta. Socialisti o no, interventisti o neutralisti, nessuno si era mai rammaricato del ritorno all’Italia di Trento e Trieste. Nessuno che non avesse a cuore il paese in cui era nato e viveva.
Di tutto ciò oggi rimane una Festa delle Forze Armate che ha lo stesso appeal di un trafiletto in ventesima pagina, di una notizia data nelle ultime battute di un telegiornale, tanto per far passare quei secondi prima della pubblicità. Della nostra patria, di cosa è costata, di cosa costerebbe riperderla, ai nostri ragazzi nessuno parla più.
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