Arrivò a Firenze nell’estate del 1975, e questo core de Roma piacque subito ai fiorentini. Irriverenti come loro solito, lo soprannominarono stroncapettini in omaggio alla sua chioma precocemente diradata. Ma poi si appassionarono subito al suo stare in panchina ed a quella sua quadra yeye che cercava di rinverdire i fasti di un’altra che solo pochi anni prima in riva all’Arno aveva vinto lo scudetto.
In riva al Tevere, Carletto Mazzone sarebbe stato soprannominato er magara, per quel suo accento romanesco accentuato che spiccava perfino alle orecchie dei suoi concittadini. Non sarebbe stato profeta in patria Carletto, come succede a tanti, ma nel cuore dei romani e degli italiani innamorati del bel calcio ci sarebbe comunque rimasto.
Dalle giovanili della Maggica sarebbe andato a spendere la carriera ad Ascoli, e sarebbe stata la sua fortuna. Dopo un’esperienza abbastanza inedita per il campionato italiano di capitano-allenatore in campo. Il vulcanico presidente dell’Ascoli Calcio, Costantino Rozzi, un’altra bella figura di un calcio d’altri tempi, gli affidò la guida della squadra. Mazzone lo ripagò portandola in serie A, con due promozioni ed una salvezza in successione. Uno dei miracoli di cui il nostro calcio non ancora affogato da troppi soldi era allora capace.
1975, a Firenze un altro presidente mecenate come Ugolino Ugolini cercava di rinverdire i fasti del predecessore Nello Baglini, di cui era stato braccio destro. Questo allenatore emergente con – già allora – pochi capelli ma tante idee su come far giocare al meglio i talenti a disposizione gli parve la scelta migliore.
Mazzone arrivò a Firenze poco dopo che la squadra a lui affidata aveva vinto la Coppa Italia a Roma battendo il Milan, con in panchina colui che sarebbe diventato il suo secondo, Mario Mazzoni. Non alzò lui dunque quel trofeo ma sembrò in grado di rivincerne altri. Alla fine, la maledizione della maglia viola avrebbe vanificato i suoi tentativi, facendogli portare a casa soltanto una Coppa di Lega Italo – Inglese. Avrebbe avuto soltanto la soddisfazione di arrivare terzo nel 1977 dietro a quei due mostri a nome Juventus e Torino che avevano dato vita al campionato più combattuto e spettacolare che si ricordi. 51 a 50 per la Juve (non c’erano i tre punti allora), la Fiorentina finì appunto terza a 36, sembrò comunque tanta roba.
Il destino di Firenze era tuttavia in agguato, l’anno dopo la tarsalgia di Antognoni ed il precoce sfiorire di tanti giovani talenti fecero sì che i viola a Natale fossero ultimi, condannati vistosamente a retrocedere, ormai in scarsa sintonia con un tecnico che non sapeva più che pesci pigliare. Toccò di nuovo a Mazzoni, poi a Chiappella, la Fiorentina alla fine si salvò in modo rocambolesco. Stroncapettini ormai era in quel di Catanzaro a ricominciare da zero.
Carlo Mazzoni era uno di quei tecnici destinati a bordeggiare a fianco del calcio che conta senza mai entrae veramente nella sua corrente. Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari furono le sue piazze, mai quelle di vertice. Finché non lo chiamò Mamma Roma, e per una volta sembrò che la fortuna arridesse agli audaci, o quantomeno ai meritevoli. Capitò purtroppo però negli anni di transizione tra i giallorossi dell’epoca Liedholm – Eriksson e quelli che avrebbero visto in campo Francesco Totti. Anni difficili, ingestibili, pieni di polemiche. A Roma tuttavia lo ricordano non solo per quel sor magara a presa amorevole per i fondelli, ma anche perché – gan talent scout come in fondo egli era – il Pupone in campo lo lanciò lui, a sedici anni appena.
Via di nuovo in provincia, ancora Cagliari, un Napoli non trascendentale, il Perugia dove andò a fare inevitabili scintille con il presidente Luciano Gaucci, che definire vulcanico era un eufemismo.
Nel 2000 Luigi Corioni buonanima lo chiamò a Brescia, e lì Mazzone costruì il monumento a se stesso. Tutti lo ricordano per quella corsa sotto la curva atalantina dopo un derby che le sue rondinelle avevano pareggiato all’ultimo minuto e dopo tanti insulti con cui i bergamaschi lo avevano bersagliato per l’intera partita, e che il core de Roma restituì tutti insieme. Gli amanti del calcio vero, quello che almeno in Italia non esiste più, lo ricordano piuttosto per quel capolavoro con cui riuscì a mettere in campo tutti insieme talenti scartati dai grandi club (e poi da loro stessi invidiati): Luca Toni, Roberto Baggio e Andrea Pirlo (che giocarono in linea con uno schema che poi il pluriblasonato Ancelotti avrebbe ripetuto al suo Milan stellare con Rui Costa e Kaka) e Pep Guardiola. Che poi diventato allenatore del Barcellona gli dedicò in pieno Nou Camp il tributo per avergli ispirato la vittoria nella Champion’s del 2009. «Mi ispiro al credo calcistico di Carlo Mazzone», dichiarò a micofoni aperti il Pep, e Carletto che era lì a due passi, invitato dalla società catalana su richiesta del suo allenatore, gongolava vistosamente.
Ha allenato più fuoriclasse lui della maggior parte dei suoi colleghi messi insieme. Ne citiamo alcuni: Roberto Baggio, Marco Materazzi, Pep Guardiola, Francesco Totti, Andrea Pirlo, Giuseppe Giannini, Giuseppe Signori, Dario Hubner, Gigi Di Biagio, Claudio Ranieri, Luca Toni. Tutta gente che, passata per le sue mani, è andata poi a fare la storia del nostro calcio, alla faccia di sussiegosi colleghi che non sapevano cosa farsene salvo poi portarsi a casa Panchine d’Oro.
Se n’é andato con il record di panchine in serie A, 792 partite con le quali ha staccato di 5 nientemeno che Nereo Rocco.
Ha un posto nel cuore di tutti, insieme a quello nella Hall of Fame del calcio italiano, doverosamente concessogli dalla FIGC nel 2019. Lo stadio Del Duca di Ascoli ha una curva intitolata a lui, e chissà che adesso la dedica non si estenda a tutto l’impianto.
Per noi ex ragazzi viola di Firenze in particolare resta la simpatia e la competenza di un uomo che aveva molte più idee che capelli, e a cui come in altri casi il destino non rese possibile realizzarle. Stroncando non solo i pettini, ma anche i sogni di una intera città.
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