Accadde Oggi

C’era una volta la città dei matti

Era nato a Venezia l’11 marzo 1924. Il mare nel suo destino, anche se sarebbe stata l’altra sponda dell’Adriatico a dargli l’immortalità. Franco Basaglia era un predestinato, che aveva fatto amicizia con altri predestinati come lui fin dal tempo degli studi all’Università di Padova. Franco Panizon sarebbe diventato il fondatore della moderna pediatria, lui della moderna psichiatria e neurologia.

La guerra l’aveva trascorsa da studente antifascista (arrestato e detenuto per qualche mese dal regime). Il dopoguerra da studente in psichiatria fortemente affascinato dalle correnti filosofiche dell’esistenzialismo che avrebbero precorso e poi dato vita al maggio francese del 1968: Jean Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty, Martin Heidegger, Edmund Husserl.

Sposato con Franca Ongaro, che lo avrebbe assistito e supportato per tutta la vita nella sua battaglia, cofondatrice di Psichiatria Democratica, il giovane Basaglia comprese ben presto che la carriera universitaria non faceva per lui. Troppi dogmi, troppe carriere ortodosse, troppi intelletti ingessati e sepolcri imbiancati. Meglio il lavoro sul campo, dove sentiva di poter dimostrare chi era e cosa aveva da dire e da cambiare.

Franca Ongaro e Franco Basaglia

Nell’immediato dopoguerra il nord-est era una zona d’Italia dove le sofferenze individuali e collettive lasciavano ancora un segno apparentemente indelebile. All’ospedale psichiatrico – al manicomio come si diceva volgarmente – di Gorizia, l’impatto del neodirettore Basaglia con la malattia mentale fu durissimo, sconvolgente. E fortificante. Le idee che già coltivava, corroborate dalla collaborazione con altri scienziati di talento, come quel Giorgio Antonucci di Lucca che si stava accreditando come referente italiano dell’Antipsichiatria (il rifiuto delle tecniche di trattamento tradizionale della malattia mentale), trovarono un primo campo di applicazione decisivo.

Franco Basaglia trasformò l’ospedale psichiatrico di Gorizia da manicomio a comunità terapeutica, eliminando completamente metodi coercitivi, contenzione fisica, terapie elettroconvulsivanti (elettroshock). Per l’epoca, una rivoluzione clamorosa. La malattia della mente era finalmente trattata come quella di qualsiasi altro organo umano. Trattata e curata, fin dove possibile, da medici specializzati nelle nuove teorie e tecniche, e soprattutto dotati della necessaria empatia verso i pazienti.

L’esperienza di Gorizia si rivelò un successo per il rivoluzionario della psichiatria, ma ormai era atteso da un palcoscenico ancora più grande. Nel 1969 lasciò la città giuliana e dopo una breve esperienza a Parma fu chiamato da dirigere l’ospedale psichiatrico del capoluogo, Trieste.

Marco Cavallo, il simbolo della rivoluzione di Basaglia

Quella triestina era una vera e propria città dei matti. A ripercorrere oggi – a distanza di tanto tempo e senza più alcun segno umano o vestigia di alcun tipo della sofferenza che vi albergava – le strade interne del villaggio che ormai fa parte integrante dell’agglomerato urbano triestino, vengono tutt’ora i brividi.

Basaglia era pronto per cambiare quel mondo, e il mondo – per una di quelle circostanze fortunate che a volte offre la Storia – gliene offrì il luogo e l’occasione ideali. A Trieste Basaglia istituì da subito, all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro, una cooperativa di lavoro per i pazienti, che così cominciarono a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Prove tecniche di recupero umano e civile.

Ma ormai serviva di più. Era chiaro, maturo il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all’interno dell’ospedale psichiatrico: il manicomio per Basaglia andava chiuso ed al suo posto andava costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all’assistenza più adeguata delle persone affette da disturbi mentali e consentire loro il reinserimento nella comunità civile, nella cosiddetta vita normale.

Il momento in cui nello sceneggiato di Marco Turco e Fabrizio Gifuni (C’era una volta la città dei matti) Basaglia sfonda le mura del manicomio per far uscire Marco Cavallo

La psichiatria, che non aveva fino ad allora compreso i sintomi della malattia mentale, doveva cessare di essere strumentale al processo di esclusione del malato mentale, voluto da un sistema sociale fondato sulla convinzione di dover allontanare da sé ed emarginare i soggetti in un modo o nell’altro in contraddizione con la sua filosofia e con la sua ideologia di base.

L’uscita di Marco, il cavallo di cartapesta seguito dai matti per le strade di Trieste segnò il momento emotivo di svolta di quella epopea ormai leggendaria. Quei matti potevano uscire, innocui, la gente poteva vederli sfilare tra sé, vivere in mezzo a sé, senza più provare paura, disgusto, disprezzo, ma solo la stessa empatia che gli psichiatri democratici (il movimento fu fondato nel 1973) stava insegnandole a provare verso suoi simili più sfortunati.

Nello stesso 1973 Trieste venne designata zona pilota per l’Italia nella ricerca dell’OMS sui servizi di salute mentale. L’Italia poteva inorgoglirsi di essere in questo campo all’avanguardia planetaria, grazie al suo scienziato Franco Basaglia. Che nello stesso tempo poteva inorgoglirsi di aver dato sistematizzazione alla contestazione sessantottina al sistema sociale tradizionale nel settore più delicato e bisognoso della società del suo tempo.

Franco Basaglia (11 marzo 1924 – 29 agosto 1980)

L’appuntamento vero e proprio con la storia sarebbe arrivato il 13 maggio 1978, allorché il Parlamento approvò la Legge 180 comunemente conosciuta come Legge Basaglia, o legge di riforma psichiatrica. Da allora, la chiusura dei manicomi fu non solo un atto dovuto, ma un atto di indiscutibile civiltà. Così come era sembrato fino a pochi anni prima il loro mantenimento.

C’é in psichiatria un mondo prima di Franco Basaglia e un mondo dopo Franco Basaglia. I disturbi mentali veri o presunti (nelle epoche passate era prassi comune avvalersi del ricovero in ospedali psichiatrici, per il quale bastava una semplice perizia medica, per eliminare dalla società individui ritenuti in qualche modo sovversivi, o anche dalle singole famiglie componenti ritenuti a qualche titolo scomodi) cessarono con lui di essere motivo di segregazione, annullamento della personalità, e diventarono semplici patologie da curare.

Basaglia non avrebbe visto che gli albori di quel mondo che aveva così clamorosamente rivoluzionato. Per una di quelle beffe che fa la vita, il suo cervello così brillante fu fulminato in breve tempo da un tumore. Morì il 29 agosto 1980 nella sua casa di Venezia, assistito dalla moglie Franca che poi ne continuò l’opera, entrando addirittura in Parlamento come senatrice della sinistra indipendente e dedicandosi all’approvazione, laboriosa, delle norme applicative della legge che porta il nome del marito.

La Legge Basaglia è una di quelle leggi degli anni settanta che hanno fatto da spartiacque per il processo di inserimento del nostro paese nel novero delle nazioni civili.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

Lascia un commento