Diceva Indro Montanelli che chi non è stato soldato non potrà mai essere appieno cittadino. Noi ragazzi che ci formavamo sulla sua Storia d’Italia, superata una perplessità iniziale dovuta più che altro al clima dell’epoca, imparavamo che quei valori di Patria, di Nazione, di comunità civile che al bisogno diventava anche comunità militare – valori che dal dopoguerra fino a tutti gli anni Settanta erano stati così poco di moda, liquidati tout court come fascisti – erano imprescindibili per fare prima o poi anche di quello italiano un Popolo, nel senso completo della parola.
Imparavamo che da quando gli Italiani avevano smesso di organizzarsi in armi, più o meno all’epoca della caduta dell’Impero Romano e con le eccezioni localizzate ed insufficienti costituite dalle Milizie Comunali, essi erano stati destinati fatalmente a sottomettersi ad altri popoli che invece avevano sviluppato e mantenuto un’idea di cittadinanza tanto civile quanto militare. E tornare alla libertà era stato poi assai faticoso e sanguinoso.
Il servizio di leva era tornato in auge con il Risorgimento, che in un modo o nell’altro aveva istillato nelle genti che abitano la nostra penisola un’idea di Patria, di Nazione, di comunità. Cacciare gli Austriaci a metà Ottocento era stato possibile soltanto grazie al soccorso militare della Francia. Nella Prima Guerra Mondiale invece l’esercito italiano aveva fatto la sua parte in modo più consistente, fino alla vittoria. Nella Seconda, andò come tutti sanno: non mancò il valore ma piuttosto – oltre alla fortuna, come recitano le lapidi commemorative – la convinzione di essere dalla parte giusta. Il che lasciò in eredità un’altra convinzione, quella di essere bravi cittadini soltanto se si è pacifisti, antimilitaristi, disarmati.
Quando negli anni Ottanta l’Italia prese a partecipare alle missioni internazionali ipocritamente definite di peacekeeping (proprio per non urtare suscettibilità antimilitariste ancora diffuse e non soltanto nel nostro paese, dove l’art. 11 della Costituzione veniva puntualmente letto – soprattutto dal mondo di sinistra – come rinuncia totale e unilaterale alle armi, anche per legittima difesa), questa convinzione andò a sua volta in crisi.
Da allora, ci siamo riabituati a veder sfilare reparti in armi il 2 giugno e nelle altre feste comandate, a sventolare ed onorare la bandiera tricolore esposta non solo per le partite di calcio, a vedere i nostri ragazzi impegnati in teatri di guerra anche sanguinosi. Abbiamo retto civilmente l’impatto con Nasiriya e Mogadiscio come fino a una decina di anni prima sarebbe stato impensabile.
D’altra parte, la riforma dell’esercito del 2004 ha inteso mettere le nostre Forze Armate al passo con i tempi, o almeno quelli che il corpo sociale ed il mondo politico che spesso lo ha rappresentato malamente e superficialmente consideravano i tempi. Esercito non più di leva, ma di mestiere. Non più cittadini in armi, che prestano un servizio utile al paese e nello stesso integrano la propria educazione e formazione personale con quel servizio. Ma corpi d’èlite, ritenuti più funzionali. A cosa? Nelle missioni di pace andavano anche prima i reparti speciali, come ci vanno adesso. In compenso, se ai tempi della leva la capacità di resistenza dell’esercito italiano come avamposto NATO veniva valutata in tre giorni, adesso c’é da chiedersi se resisteremmo mezza giornata.
Il risultato principale è che abbiamo una nuova generazione di italiani a cui non viene insegnato più niente. Né in ambito civile, da parte di una scuola pubblica che è allo sbando, avendo abdicato alla funzione di educazione civica e di qualsiasi altro tipo di educazione, Né – venuta meno la naja – in ambito militare, dove venivano instillati nelle coscienze dei giovani valori come la autodisciplina, l’auto-organizzazione, il non aspettarsi che il paese faccia qualcosa per noi – parafrasando le parole di John Fitzgerald Kennedy – ma chiedersi piuttosto cosa noi possiamo fare per il nostro paese, la nostra comunità.
In questi giorni, tra le tante sollecitazioni al cambiamento che sono insieme causa ed effetto dell’avvicendamento al governo tra centrosinistra e coalizione 5Stelle-Lega, torna in discussione la proposta – avanzata dal Ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini – di istituire nuovamente una sorta di servizio di leva (non necessariamente in armi) in funzione soprattutto educativa per nuove generazioni che stanno venendo su con tanti diritti (alcuni decisamente discutibili) e nessun dovere.
Prevedibile la reazione della sinistra, che liquida il tutto come una sparata leghista e che dà fiato all’avversione storica congenita per tutto ciò che è Patria, Nazione, valori connessi al militarismo in senso lato. Prevedibile quella del centrodestra forzista, forse legato ad ambienti della Difesa – chiamiamoli così – sedentari, poco desiderosi di toccare un assetto in qualche modo stabilizzato con soddisfazione generale, a cominciare dagli addetti ai lavori, per rimettere in gioco un po’ tutto, comprese le carriere personali (una caratteristica purtroppo anch’essa storica del nostro esercito dai tempi risorgimentali).
Prevedibile anche la reazione della gioventù che non avrebbe comprensibilmente – sua sponte – alcuna voglia di essere tirata giù dalle brande, e spedita (prima dell’ora di pranzo, alle vecchie ore antelucane) a fare qualcosa per gli altri invece di aspettare che qualcun altro faccia qualcosa per lei.
Prevedibile che i media attualmente orientati a sinistra per i ben noti motivi cavalchino tutti questi NO, perché in sostanza si tratta di dar contro a Matteo Salvini ed alla componente leghista del governo. Salvo poi acquietarsi di colpo, perplessi ed imbarazzati, quando sono costretti a dare a denti stretti la notizia che l’ex alleato germanico (dei governi sobri e di quelli fanfaroni, da Monti a Renzi) sta pensando di fare la stessa cosa di Salvini, e non limitando la ferma eventuale a pochi mesi, ma riportandola ad un anno, com’era una volta.
Altri paesi europei hanno già reintrodotto la leva obbligatoria, segno che i tempi con cui stare al passo sono cambiati nuovamente. Sarà pure un’idea romantica, come dice il Ministro della Difesa Elisabetta Trenta forse facendosi interprete del malpancismo istintivo che proviene dalle profondità dell’organizzazione da lei diretta. Nessuno in grigioverde ha probabilmente, come detto, voglia di scomodarsi ad affrontare il profondo sconvolgimento derivante oggettivamente dal riorganizzare le caserme per accogliere i cittadini in armi. Ed anche, stavolta, le cittadine, perché ormai il principio cardine è che uomini e donne sono assolutamente uguali, anche quando si tratta di imbracciare un fucile o buttarsi con un paracadute.
Nessuno legge più la Storia d’Italia di Indro Montanelli. Ma forse, per rimettere in piedi non solo questo paese ma anche il popolo che lo abita, certi suoi insegnamenti e certe sue osservazioni andrebbero rivalutate, anche da parte di chi ha Salvini in gran dispetto. Saperci difendere potrebbe tornarci utile prima di quanto ci piacccia o ci riesca di pensare. E tirare su una generazione di ragazzi che, come noi, almeno sappiano rifarsi il letto da soli e sparecchiare una tavola, male non dovrebbe fare. Né a noi, né – soprattutto – a loro.
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