Ci sono eventi destinati a lasciare il segno sulla storia individuale di ognuno, non soltanto perché per la loro portata hanno la conseguenza di lasciarsi dietro un mondo che non sarà più quello di prima. Ma perché anche a distanza di tempo tutti ricorderanno dov’erano e cosa facevano in quel momento.
L’attentato di Sarajevo, l’attacco giapponese a Pearl Harbor, la caduta del Muro di Berlino. E l’attacco di Al-Qaida alle Torri Gemelle a New York. Ogni generazione ha avuto il suo evento epocale. Degli appartenenti alla mia, sfido chiunque a dire che non si ricorda con esattezza di quel segmento preciso della propria vita che coincise con le ore 15,00 (ora italiana) del giorno 11 settembre 2001.
Ero al lavoro, di rientro dalla pausa pranzo. Ricordo che furono alcuni colleghi a mettermi a parte della novità. Con un tono tra l’incerto ed il lapidario, com’era logico che fosse in quel frangente: «Hanno attaccato il World Trade Center a New York. Aerei contro le Twin Towers». Due minuti dopo eravamo tutti davanti alla televisione in dotazione all’ufficio. A cercare conferma. A realizzare attoniti e silenziosi che il nostro mondo era cambiato per sempre.
Non ce ne rendemmo conto subito. Da principio le notizie si susseguivano frammentarie e ovviamente tutte da verificare. Si parlava del Pentagono saltato in aria, del Presidente degli Stati Uniti disperso, missing in action. G.W. Bush, da poco eletto alla Casa Bianca, non dava notizie di sé da diverse ore, quando la sera tornati a casa ci mettemmo davanti al telegiornale a seguire gli sviluppi della storia.
Mi tornò in mente un libro che avevo letto da poco, il profetico Potere esecutivo, frutto della fantasia (bene informata) di Tom Clancy, l’autore della Grande fuga dell’Ottobre Rosso. Era l’ultimo capitolo della saga di Jack Ryan, che oggi è l’eroe di una serie televisiva action – glamour, ma che allora era il protagonista letterario di una storia che coincideva sorprendentemente con gli sviluppi della Guerra Fredda appena terminata e con l’insorgere dello scontro di civiltà tra Occidente ed Oriente.
Nel libro, aerei kamikaze si abbattevano contro il Campidoglio di Washington, mentre il Presidente parlava alle Camere riunite in seduta comune. Il potere americano veniva decapitato in un sol colpo. L’analista della CIA Ryan, da poco nominato vicepresidente, si ritrovava improvvisamente nelle mani il potere esecutivo. E sapendo cosa farne, dopo tutti gli anni di militanza nei servizi segreti, riusciva a ristabilire la situazione e a salvare Stati Uniti ed Occidente.
Un bel libro, se vi piace il genere. Mai avrei detto che fosse così profetico. Nella realtà che scorreva sotto i miei occhi, il Presidente Bush si era salvato, portato tempestivamente in un bunker dai servizi che dovevano proteggerlo. L’aereo che doveva abbattersi sulla Casa Bianca era stato eroicamente dirottato dall’equipaggio che aveva scongiurato una catastrofe e guadagnato imperitura, onorata e grata memoria da parte dei connazionali. Il Pentagono se l’era cavata con danni marginali. Il Parlamento americano era intatto. I poteri esecutivo e legislativo erano illesi.
Ma cambiava poco. Il danno c’era stato comunque, enorme. Il peggiore l’aveva ricevuto non la sostanza dell’american way of life, ma il suo simbolo. Le Torri Gemelle erano la rappresentazione del mito del secolo americano, dell’invincibilità del paese che non aveva mai perso una guerra (a parte quella del Vietnam, che era stata del tutto particolare), che addirittura non aveva mai dovuto combattere una guerra sul proprio suolo, dopo quel 1814 in cui le Giubbe Rosse britanniche avevano tentato di vendicare la Rivoluzione Americana che aveva tolto loro le colonie del Nordamerica.
Nel 1941, le Hawaii tecnicamente non facevano parte dell’Unione, essendo un protettorato (l’annessione come 50° stato sarebbe avvenuta dopo la guerra, nel 1949). L’attacco suicida di Al-Qaida aveva dunque il discutibile onore di essere il primo ad osare l’inosabile, e ad ottenerlo. Da quel momento, gli Stati Uniti persero di colpo tutte le loro sicurezze, ed altrettanto con loro il resto del mondo occidentale.
Pochi giorni dopo si parlava già di american vendetta, per chi la faceva spicciola. O di necessità di regolare i conti una volta per tutte con quel Bin Laden e quel terrorismo islamico che per tutti gli anni novanta erano stati una spina nel fianco americano cospargendo di sangue le rappresentanze diplomatiche a stelle e strisce a giro per il mondo, per chi cercava di dare una inquadratura geopolitica e filosofica alla prevedibile reazione USA.
Gli oltre tremila morti recuperati a pezzettini sotto le macerie di Ground Zero chiedevano una risposta da parte del potere statunitense, ma più di essi la chiedeva la consapevolezza che sarebbe stato fatale perdere l’iniziativa in questa che si configurava come una nuova guerra mondiale (non la Terza, lungamente attesa contro l’URSS e mai arrivata grazie al rischio atomico, ma la Quarta, inaspettata, partita come una riedizione in tempi improbabili delle Crociate e sfociata in un conflitto su vasta scala dove i terroristi avevano alla fine lo stesso vantaggio che avevano avuto i vietcong nella jungla vietnamita: pochi, ma agili e inafferrabili).
Due giorni fa abbiamo commemorato la figura del comandante Massoud, il Leone del Panjshir che aveva combattuto sulle montagne dell’Afghanistan la guerra per interposta persona che l’Occidente aveva finanziato dapprima contro l’Armata Rossa e poi contro i Talebani. La notizia era tragica, non solo per la prestigiosa vita umana che veniva a mancare, ma perché rischiava di privare l’Occidente del suo migliore alleato di fatto proprio alla vigilia della dichiarazione di una guerra non dichiarata che avrebbe ripiombato il nostro mondo quantomeno indietro di 10 anni ai tempi della prima Guerra del Golfo.
La notizia, per quanto tragica, passò allora tuttavia in secondo piano. Pochi giorni dopo, Casa Bianca, CIA e Pentagono avevano già la mente rivolta verso Enduring Freedom, la guerra in Afghanistan, poi in Pakistan, poi in Iraq, per regolare i conti con tutte le centrali del terrore islamico. Una guerra che sarebbe durata esattamente 10 anni, fino alla vera o presunta eliminazione fisica di Osama Bin Laden organizzata dal successore di Bush, Barack Obama. Per essere ripresa subito dopo, all’insorgere di un nuovo attore nel campo dei fanatici islamici, il Califfo nero Al Baghdadi e la sua ancor più terribile Isis. Storia che non può dirsi conclusa neanche ai nostri giorni, come la cronaca testimonia quotidianamente. Storia che di recente l’amministrazione Biden in carica ha contribuito a ingarbugliare, disponendo un ritiro dall’Afghanistan che non ha tardato a produrre i suoi disastrosi ed inumani effetti.
Gli Stati Uniti, e noi con loro, vinsero la guerra che vendicava le Twin Towers ed i loro poveri morti. Ma, come sempre succede in questi casi, persero qualcosa che valeva di più. Una parte dei diritti di libertà dei cittadini (e di chiunque avesse in animo di diventarlo, o comunque di trascorrere la propria vita nel paese che una volta accoglieva i diseredati ed i poveracci di tutto il mondo). Una easy way of life complessiva che il ventunesimo secolo non ereditò dal ventesimo (provate a prendere un aereo adesso in qualsiasi aeroporto del mondo, e provate a ricordarvi com’era prima, fino ad una ventina di anni fa). E soprattutto, la nostra innocenza. L’abbiamo persa tante volte, dopo Pearl Harbor nel 1941, dopo Saigon nel 1975, dopo Kuwait City nel 1991. Ma mai come questa volta. E la famigerata Guantanamo – il protettorato americano a Cuba che tecnicamente non fa parte del territorio nazionale e su cui non si applicano le leggi e le garanzie dei diritti individuali in vigore su quel territorio – è tutt’ora lì a dimostrarlo.
Ma siamo vivi. Ancora vivi, per quanto con le ossa ammaccate e con una consapevolezza di chi siamo realmente che si attenua giorno dopo giorno. Alle ore 9,15 o giù di lì, a Ground Zero risuonerà ancora una volta la campana per i caduti. Quella campana che il poeta John Donne aveva definito una volta per tutte come colei per cui non bisogna chiedersi per chi suona.
Suona per tutti noi.
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