Primo Piano

Compagni di scuola

Primo giorno di scuola, ieri ed oggi

Da tempo immemorabile, bambini e ragazzi del Regno d’Italia prima e della Repubblica poi erano tornati a scuola il 1° ottobre, San Remigio. Vestiti dei loro grembiulini bianchi e neri adornati di fiocchi rosa o azzurri, caricati sulle spalle di cartelle amorevolmente riempite dai genitori di sussidiari, astucci e merende, il primo giorno del mese che ormai portava i colori dell’autunno i figli degli italiani venivano consegnati allo Stato. Con la consapevolezza, o più che altro la speranza, che lo Stato li avrebbe restituiti molto più avanti, dopo un lungo e spesso accidentato percorso, uomini e donne fatti, cittadini a tutti gli effetti.

Franca Falcucci

Franca Falcucci

Quell’anno cambiò qualcosa. Qualcosa apparentemente di poco importante, tra tanti altri cambiamenti, ma che in realtà aveva una carica simbolica epocale come poche altre. Quell’anno, durante l’estate, era entrata in vigore la legge 4 agosto 1977, n. 517. La legge che portava il nome, come tutte le leggi importanti, del suo relatore. Anzi, della sua relatrice, la senatrice della Democrazia Cristiana Franca Falcucci. La legge che all’art. 11, comma primo, recita: «Nella scuola elementare, media e negli istituti di istruzione secondaria superiore ed artistica l’anno scolastico ha inizio il 10 settembre e termina il 9 settembre».

Quella legge tolse di fatto San Remigio dal calendario. Accorciò per sempre l’estate di quei bambini e ragazzi che fino ad allora soltanto la sera del 30 settembre si rendevano conto che era finita, e con lei le vacanze. La bella stagione, che fino a quel momento era durata quattro mesi pieni, risultò accorciata per sempre. Ci sembrò allora, bambini e ragazzi degli anni 70, che fossero state accorciate addirittura le nostre vite.

No, le nostre impressioni di settembre quell’anno non furono un granché. E c’é da giurare, a sentire i discorsi di grandi e piccini, che non lo siano state nemmeno per le generazioni successive di ex – remigini. Sono passati 40 anni, e le innovazioni democratiche e partecipative dei Decreti Delegati del 1974 così come quelle sociali della senatrice Falcucci impallidiscono sbiadite nel ricordo rispetto a tutte quelle che sono state approvate in seguito, da Parlamenti in cui si alternavano maggioranze tutte allo stesso modo convinte di poter cambiare il mondo, poche – forse nessuna, finora – in grado di sapere realmente come cambiarlo per il meglio.

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Un altro primo giorno di scuola è arrivato, un’altra fila di bambini vestiti di grembiulini, per mano a genitori forse altrettanto perplessi di quanto non lo fossero i nostri, 40 o 50 anni fa. O forse di più. Gli zainetti hanno sostituito le cartelle. I SUV parcheggiati in doppia o tripla fila hanno sostituito quelle camminate da casa a scuola che servivano ad impostare una vita più sana, oltre che a stemperare le tensioni in arrivo o appena trascorse di una giornata di scuola.

Babbi e mamme consegnano ancora, più di prima, i loro figli allo Stato. Il fatto è che non sanno più cosa tornerà loro indietro. Uomini e donne diventati cittadini, o almeno attrezzati per diventarlo. Oppure creature allo sbando, sconcertate da quel canale privilegiato di contatto con il mondo degli adulti che è la scuola. Pubblica o privata, non fa più differenza.

La scuola cambia al passo con la società. La nostra società non sa, o non ha saputo più per lungo tempo, a che santo votarsi (non lo sa più nemmeno la Chiesa Cattolica, sempre in tema di istituzioni; chi vuole dare una formazione religiosa ai propri figli rischia – a scorrere le cronache quotidiane – di metterli in mano a qualcosa che assomiglia piuttosto alla congregazione delle Bestie di Satana). Per lungo tempo ha inseguito valori fittizi, disgreganti, devastanti, spacciandoli per il verbo di una nuova coesione sociale multietnica, multiculturale, multitutto. E ha chiesto alla nostra scuola di trasmetterli alle povere creature indifese che noi inconsapevolmente le abbiamo affidato, credendo in buona fede che si trattasse della stessa istituzione, magari un po’ sgangherata e incasinata ma tutto sommato formativa, dei tempi nostri.

Non è stato così. Trasmettiamo ai nostri figli nozioni contraddittorie, inutili, dannose con la stessa protervia con cui inoculiamo loro nelle vene vaccini in serie dall’utilità ancora tutta da dimostrare. Meno che per le tasche di chi si è spinto perfino a mettere in discussione l’obbligo scolastico – uno dei principi più sacri e significativi della nostra Costituzione -, subordinandolo a quello vaccinale.

A scuola negli anni 60

A scuola negli anni 60

Togliamo il crocifisso da classi da cui nel frattempo è sparito un po’ tutto, grazie alle varie spending reviews. E non siamo nemmeno capaci di spiegare il perché agli alunni che stralunati continuano a trovare la foto del presidente della repubblica di turno, ma non più il simbolo principale della nostra eredità culturale, che uno sia religioso o meno.

Togliamo il prosciutto e le altre parti del maiale dalle mense scolastiche, già messe a dura prova dai catering comunali istituiti da piccoli demiurghi locali (anche la scuola pubblica ha avuto ed ha le sue ESTAR). E non siamo neanche capaci di spiegare il perché ai nostri figlioli, già costretti dal tempo pieno a non tornare più a mangiare a casa, nella loro confortevole casa dove ogni giorno di scuola trovava la sua sistemazione, la sua sintesi, il suo conforto. Non siamo mai riusciti a spiegare loro nemmeno il tempo pieno in quanto tale, se è per questo.

Togliamo, più avanti nel percorso, materie importanti e fondanti come la geografia, o la storia dell’arte. Un bel servizio reso ai futuri cittadini di un paese che di arte vive e della sua distruzione presto morirà.

Togliamo questo e quello, a seconda della spostatura o dell’ignoranza proterva di chi ha avuto in affido il dicastero dell’Istruzione di volta in volta, di maggioranza in maggioranza. Pare che Mondadori (Education) abbia pubblicato tempo fa un sussidiario dove viene riportata la celebre nozione divulgata dal ministro Gelmini, in uno dei momenti più alti della nostra storia civile e culturale: il tunnel dei neutrini tra Ginevra ed il Gran Sasso esiste veramente. Il maestro Manzi si sta rivoltando nella tomba, o se ci guarda da lassù starà valutando di cambiare nome alla sua celebre trasmissione con cui alfabetizzò gli italiani dei primi anni della televisione: non è mai troppo tardi, sì, ma per chiudere questa baracca.

Abbiamo tolto tutto, via via, a questi ragazzi che tornano a scuola. A cominciare dal loro futuro, che comincerà il giorno che lo Stato ce li restituirà, sputandoli fuori come una lattina da un distributore di insalubri merendine (tassate comunque dal governo), come quelli che hanno sostituito l’omino del bar di fronte durante la ricreazione di mezza mattinata.

Se mai potranno perdonarci, i nostri figlioli, auguriamo loro di poter salvare – di questi anni che trascorreranno in questo ambiente sempre più distante dal mondo in cui li abbiamo messi a vivere, tra un anno scolastico e l’altro, tra un’estate più corta e l’altra – quella che per noi alla fine è stata la ricchezza più grande: le amicizie formate sui banchi di scuola, le più forti e salde di tutta una vita, non scalfite da una competizione e da un malanimo reciproco che si vorrebbero oggi istillare nei bambini fin dalla culla.

Perché almeno non si ritrovino un giorno ad essere l’ennesima generazione che canta la più bella e la più disperata delle canzoni di Antonello Venditti: compagno di scuola, compagno di niente.

La copertina di Compagno di scuola, 1975, Antonello Venditti per RCA

La copertina di Compagno di scuola, 1975, Antonello Venditti per RCA

P.S. Siamo stati incerti se riscrivere questo articolo di sana pianta, almeno un paio di volte: all’avvento del Covid19 ed alla sua apparente dipartita. Abbiamo deciso di aggiungerci soltanto qualche paragrafo di aggiornamento, reso inevitabile dall’attualità.

Negli ultimi anni, al ritorno a scuola, bambini, ragazzi e genitori hanno trovato una novità in più, peraltro attesa. Una grossa e temibile novità che ha già stravolto nei mesi precedenti quel “piccolo mondo antico” bene o male sopravvissuto allo scorrere del tempo e delle nostre generazioni, e che forse ha cambiato e cambierà il nostro “vivere sociale” irrimediabilmente e senza ritorno.

Il Covid19 ha fatto quello che nessuna maggioranza di governo e nessun ministro della pubblica istruzione – per quanto animato da spirito riformatore bene o male inteso – aveva osato immaginare. Il secondo quadrimestre dell’anno scolastico 2019-20 ha messo a casa gli scolari, così come qualsiasi altra categoria di cittadini. Il lockdown, parola sicuramente aborrita dagli insegnanti della lingua italiana oltre che dai puristi di essa, ha portato con sè lo smartworking obbligatorio, che applicato alla scuola possiamo chiamare smartstudying. Si frequentavano le lezioni dalla propria cameretta, confidando sulla buona volontà dei docenti e sull’efficienza di internet.

Al di là dell’effettività dell’istruzione così ricevuta, i ragazzi e i bambini si sono ritrovati costretti tra le quattro mura domestiche, lontani dai loro compagni ed amici e da qualsiasi possibilità di socializzazione primaria, sicuramente l’aspetto più apprezzato dagli scolari di tutte le epoche. Su quei banchini a cui qualcuno avrebbe voluto mettere le ruote e che magari ancora adesso dovranno distanziarsi ulteriormente a norma dei protocolli ministeriali  sopravvissuti alla pandemia, i nostri figli – come noi prima di loro – hanno stretto e stringono amicizie e rapporti destinati a durare tutta la vita e ad essere forse i più importanti.

Tutto questo è stato cancellato prima e condizionato poi dalla necessità di combattere un male oscuro (non soltanto dal punto di vista sanitario) che tra l’altro non siamo capaci di spiegare prima di tutto a noi stessi, figuriamoci poi a quelle creature che abbiamo messo al mondo credendo che fosse un posto sicuro per farlo.

Con queste premesse, la scuola alla quale abbiamo riconsegnato i figli per conto dello Stato rischia di essere soltanto il primo impatto con un mondo degli adulti ormai in preda alla follia. Non eravamo tra l’altro granché in grado di attrezzare i nostri figli contro le storture di questo nostro mondo e della nostra società già prima del Covid. Figurarsi adesso, che siamo prima di tutto noi adulti i più disorientati ed i meno attrezzati.

L’epopea del Covid sembra finita, per il momento. Ma alla scuola resta nel frattempo, l’ulteriore salto di qualità (diciamo così), dall’improbabile Gelmini alla pittoresca Azzolina. Non ha più i suoi connotati e la sua funzione, e chissà se e quando li riavrà. Nel frattempo, non ha ancora un cantautore in grado di rendercela almeno accettabile nel ricordo, quando in futuro fischietteremo qualche ritornello che parla di questi giorni, di bambini con il grembiule e la mascherina (vai a “suggerire” ad un compagno con quel coso sulla bocca, se ti riesce). Di adulti, insegnanti e genitori, che non sono più un modello da eguagliare un giorno (se mai lo sono stati), ma soltanto gli “asintomatici” di una follia, di un incubo da cui fuggire e distanziarsi davvero, appena possibile.

Se solo ai nostri figli sarà data l’occasione di farlo.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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