I plenipotenziari dei paesi belligeranti si apprestano a salire nel vagone ferroviario dove, senza testimoni della stampa, firmeranno l’armistizio
L’ultimo colpo della Prima Guerra Mondiale pare che sia stato sparato da una batteria semovente americana a Charny sur Meuse in Francia e abbia centrato un magazzino tedesco a ventidue miglia di distanza (trentacinque chilometri circa) a Longuyon sul confine belga, alle 10,58. Due minuti prima dell’entrata in vigore dell’armistizio.
E poi finalmente il fuoco cessò, e tornò il silenzio. A Compiegne, in un vagone ferroviario fermo nella foresta e lontano dagli occhi di tutti, compresi quelli dei giornalisti, gli avversari che per quattro anni si erano saltati alla gola combattendosi senza quartiere deposero le armi senza nessuna prosopopea. Troppo era il sangue che doveva ancora asciugarsi intorno a loro. Quello non era un momento di festa, ma soltanto di sollievo.
Soltanto i francesi avevano voglia di dare enfasi a quell’evento, ma la loro era una voglia di rivincita che veniva da lontano. Da un altro mondo e da un’altra epoca, c’erano ancora le cariche di cavalleria, si andava in battaglia al suono della tromba, la Francia aveva l’Imperatore e dopo Sedan anche la Germania vittoriosa avrebbe avuto il suo, prendendosi anche l’Alsazia e la Lorena.
Per tutti gli altri, stipati su quel vagone ferroviario nel bosco che circondava il piccolo borgo di Rethondes, nell’arondissement di Compiegne, c’era solo la consapevolezza di dover mettere fine ad una immane tragedia. Dove tutti, anche chi aveva vinto, avevano perso molto. C’erano morti da piangere, tantissimi, una intera generazione falcidiata come non mai. C’erano riparazioni da imporre e vendette da consumare. C’erano nuovi pericoli che incombevano. Nessuno aveva voglia di foto ricordo e di articoli celebrativi sui principali quotidiani del mondo, anche se inevitabilmente ci sarebbero stati. Ma nessuno avrebbe potuto testimoniare di quel momento, quell’undicesimo minuto dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese in cui per la prima volta dopo quattro anni l’unico rumore era stato quello delle penne che strusciavano sulla carta lasciandosi dietro l’inchiostro che metteva fine al sangue. Quello sarebbe rimasto come un momento privato, anche se fuori da quel vagone c’era (per la prima volta) un mondo intero che attendeva.
Quel giorno sarebbe rimasto in tutti i calendari con il nome appropriato di Giorno della Rimembranza. Più che di vittorie e sconfitte, ogni anno a venire avrebbe portato con sé la memoria e la commemorazione dei caduti. Ognuno l’avrebbe vissuto a modo suo, i francesi come la revanche a cui era valsa la pena sacrificare una nuova generazione. Così gli italiani, anche se il loro Risorgimento conclusosi a Trieste ed a Trento, la loro Vittoria, sarebbero stati vissuti come mutilati, tanto da convincere qualcuno della necessità di nuove guerre.
I tedeschi avrebbero interiorizzato a loro volta l’attesa della propria rache, equivalente nella loro lingua del francese revanche. Una vendetta che avrebbero momentaneamente sublimato sempre a Rethondes, sempre sullo stesso vagone ferroviario appositamente riesumato per l’occasione, ma stavolta con un ex caporale austriaco a dettare le condizioni a generali e primi ministri di mezza Europa. L’eroe della Prima Guerra Petain sarebbe diventato il traditore collaborazionista della Seconda, e soltanto uno sprovveduto come l’attuale presidente Macron avrebbe trovato opportuno rivangare la questione, scoperchiando vasi contenenti memorie che i francesi non amano rievocare, non più di quanto i coetanei tedeschi amino rievocare le loro.
Gli austriaci si sarebbero scoperti semplicemente austriaci, e non più uno dei tanti gruppi etnici appartenenti all’Impero sovranazionale che aveva avuto Vienna come capitale e l’Impero Romano estinto da millecinquecento anni come archetipo. E come ungheresi, cecoslovacchi, polacchi, rumeni avrebbero fatto una gran fatica ad adattarsi al mondo nuovo in cui la libertà improvvisa li aveva catapultati.
Gli americani si sarebbero illusi ancora per poco di poter sostituire la dottrina Monroe secondo cui dovevano occuparsi in modo esclusivo soltanto dell’America con la dottrina Wilson secondo cui il mondo in fondo non è altro che una congregazione metodista da governare con gli stessi metodi e quella delle nazioni non è altro che una società (anche se per azioni). E avrebbero atteso una nuova catastrofe per convincersi ad abbandonare un isolazionismo già diventato obsoleto e velleitario, accettando l’investitura internazionale che avrebbe fatto del ventesimo secolo il secolo americano.
L’Asia e l’Africa avrebbero cominciato a intuire che i paesi europei quando si combattono tra loro diventano potenze coloniali più malleabili e più disposte a barattare imperi militari con commonwealth economici. Il più grande di tutti gli Imperi dell’epoca, quello Britannico, avrebbe compiuto lo stesso percorso psicologico, convincendosi che l’era dei gioielli della corona disseminati per mezzo mondo era ormai al termine. E che il prezzo di sangue versato dai giovani inglesi, britannici e dei Dominions nelle trincee francesi e belghe era stato troppo alto per pensare di poterlo pagare ancora in futuro. La riluttanza della Gran Bretagna a prendere le armi contro Hitler si sarebbe spiegata soprattutto con le conseguenze del trauma subito da una generazione sopravvissuta al Kaiser.
Alla guerra come impresa romantica, alle cariche di cavalleria gloriose come quella di Balaklava ci avevano sempre creduto in pochi. A Compiegne non ci credeva più nessuno. A Versailles il trattato di pace sarebbe stato firmato con l’intento che fosse definitivo, avendo sancito l’esito della guerra che metteva fine alle guerre. I poeti e gli scrittori ormai avevano abbandonato i canti di ispirazione omerica ed il romanticismo che da Ugo Foscolo e George Byron era arrivato fino a Gavrilo Princip e ne aveva armato la mano. La gente ormai, se leggeva, preferiva le poesie di Giuseppe Ungaretti e la prosa di Erich Maria Remarque.
Dei motivi per cui quattro anni prima grandi masse si erano radunate nelle piazze europee salutando con entusiasmo l’opportunità tanto attesa di andare incontro alla gloria e di menar le mani, nessuno si ricordava più. Il mondo del novembre 1918 non aveva parentela con quello dell’agosto 1914. Per quattro anni l’essere umano si era trasformato in una creatura intirizzita e fangosa intenta alla mera sopravvivenza, e chi ce l’aveva fatta, chi era tornato a casa, se non era invalido, storpio o psichicamente disadattato, se aveva ancora una casa, non trovava più il suo posto in un mondo che non riconosceva più. Che nessuna fede o ideologia riusciva più a convincerlo di continuare a rispettare.
Di quel silenzio che calò improvvisamente sull’Europa l’11 novembre 1918 irradiandosi dalla foresta di Compiegne, ognuno avrebbe presto scoperto di non sapere cosa farsene. Da lì a ritrovarsi nuovamente in quella foresta e su quel vagone ferroviario il 22 giugno 1940, il tempo sarebbe volato via veloce, portando con sé nuove e ancora più immani tragedie.
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