«Mi sento di assumere, mi devo assumere la responsabilità di tutto quanto è stato fatto, compresa la vicenda Diciotti».
Stavolta non è il capo di un movimento eversivo che si avvia a stabilire una dittatura a fare questa affermazione, ma un presidente di un consiglio dei ministri democraticamente eletto. Quello di Giuseppe Conte non passerà purtroppo alla storia come il discorso del 3 gennaio 1925 fatto da Benito Mussolini in Parlamento per chiudere la crisi aperta dal delitto Matteotti ed instaurare il regime fascista. Non succederà, probabilmente, ma è un peccato. Uomini come Conte, di statura umana personale pari a quella di statista, ce ne sono stati pochi nella storia d’Italia, a prescindere da come andrà a finire la vicenda del governo che presiede.
Il Presidente del Consiglio scende in campo alla vigilia dell’apertura del procedimento per la concessione o meno dell’autorizzazione a procedere in giudizio contro il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Procedimento che oggi arriva sul tavolo della Giunta per le Autorizzazioni di Palazzo Madama, a seguito del suo coinvolgimento provocato dalla richiesta avanzata dal Tribunale dei Ministri siciliano, dopo l’avviso di garanzia emesso dalla Procura della Repubblica di Catania e da altre dell’isola.
La vicenda è arcinota, come ormai è arcinoto che si tratta di una provocazione sostanziata dal nulla giuridico, una trappola politica innescata su commissione del Partito Democratico con la benevolenza, staremmo per dire connivenza, di quella parte della magistratura, quella corrente dell’A.N.M. che ufficialmente o meno ancora ambisce ad avere lo stesso nome, lo stesso aggettivo qualificativo di quel partito.
Il PD che dovrebbe processare soltanto se stesso, adesso punta tutto sul processo a Salvini. La trappola è rozza soltanto in apparenza, pur non avendo – ribadiamo – alcuna sostanza giuridica, con buona pace dei luminari del diritto che da agosto ad oggi si sono pronunciati al contrario (evidentemente a livello di carriera cattedre e procure dipendono – o sono percepite come dipendenti – da un certo clima politico e ne paventano un altro, verosimilmente sopravvenuto dopo il 4 marzo 2018). E’ una trappola molto raffinata, perché fa leva su quello che potrebbe rivelarsi un punto di debolezza dell’attuale governo. Probabilmente l’unico.
Il Movimento Cinque Stelle vive una situazione difficile, se non critica, al proprio interno. C’é una parte del vertice (e verosimilmente della base) che è fortemente tentata di dare sfogo ad un cupio dissolvi attraverso il suicidio collettivo che seguirebbe alla concessione della autorizzazione a processare Salvini.
Nei giorni scorsi, avvicinandosi il momento della verità, i vertici della Lega hanno dichiarato esplicitamente ciò che é già sottinteso, implicito nei fatti. Non è un voto contro Salvini, è un voto contro il governo, il programma di governo, il futuro del governo.
Forte e chiaro. E lapalissiano. E allora perché un politico sveglio come Alessandro Di Battista ancora ieri sera se ne é uscito con una affermazione secondo cui «votare NO metterebbe in difficolta un Movimento come i Cinque Stelle», che com’é noto fa della autorizzazione a chiunque, per qualunque cosa, sempre e comunque, uno dei suoi principi statutari?
C’é una corrente di sinistra nel movimento fondato da Beppe Grillo che ha gran voglia di buttare all’aria le carte in tavola. E’ quella che fa capo a Roberto Fico, alla sua idiosincrasia di stampo anni 70 al parlamentarismo, al suo ambientalismo di matrice anni 80 che ieri definivamo da Mulino Bianco e Mucca Carolina.
C’é una corrente di non sappiamo quale collocazione (nell’emiciclo ideale da cui sono mutuati i termini – forse davvero ormai obsoleti – di destra e sinistra), ma che fa capo a Luigi Di Maio e che vorrebbe continuare un’esperienza di governo fino a qui – diciamolo pure – trionfale. In soli sette mesi le truppe del PD che avevano disceso con orgogliosa sicurezza le valli del solidarismo peloso, dell’Europa che ce lo chiede, della miseria incontrollata dei cittadini italiani per far posto a migranti in fuga dal nulla, risalgono in disordine e senza speranza verso una sconfitta che ormai non è politica, ma è storica, epocale.
Il governo gialloverde ha tutte le briscole in mano. Ha l’inerzia del match a proprio favore. Perché rimettere l’avversario in partita cadendo in una trappola costruita ad arte da chi non ha né ragioni politiche, né fondamento giuridico, né dottrina a sostegno, ma conserva tutta l’abilità bizantina del sottogoverno e del malgoverno che vengono da una lunga storia e che gli consentono adesso di tendere imboscate su imboscate da qui al voto nelle prossime elezioni europee ed amministrative?
In medio stat Di Battista, che un giorno mostra la faccia dura del movimento che può rivendicare con orgoglio la primogenitura perfino di quanto stanno facendo in Francia il gilet gialli, e dall’altro poi si incarta da solo in considerazioni filosofiche che hanno lo stesso senso di quella diatriba medioevale per stabilire il sesso degli angeli. Meglio lo Statuto o meglio la sostanza? A meno che non si tratti, come dicevamo ieri, di una questione di do ut des, di pressione sulla Lega per avere via libera su qualcosa che sta a cuore ai Cinque Stelle (nel caso specifico, stop a TAV e trivellazioni).
La politica è fatta anche di principi, per carità. Che hanno senso però soltanto se applicabili ed applicati nei casi concreti. Se siamo convinti che Salvini ha fatto il proprio dovere (e non soltanto nella vicenda Diciotti), perché farlo processare da gente che – pazienza se qualche addetto ai lavori si offende – sta dimostrando di avere la stessa formazione professionale e la stessa dottrina di un Torquemada? Perché Grillo ha detto che in questi casi si vota sempre SI? Perché qualcuno ha inteso spendere i soldi dei contribuenti ravvisando l’opportunità di indagare per una fattispecie di reato inesistente come – citiamo – abuso di potere e sequestro di persona finalizzati ad esercitare pressione sull’Unione Europea? Ma stiamo scherzando, costosamente scherzando, o cosa?
Per fortuna a vegliare sulle nostre sorti c’é, Dio ce lo conservi in salute, un Giuseppe Conte che di giorno in giorno dimostra di avere uno spessore morale e professionale, oltre che una statura di statista se ci si perdona il bisticcio di parole, tali da meritargli un posto d’onore non solo in questa complicata e sgradevole storia ma nella storia stessa d’Italia. Il premier, pur trovandosi all’estero, ha colto al volo la necessità del momento e non si è tirato indietro.
Quasi cento anni fa un presidente del consiglio che si assunse la responsabilità di quanto era accaduto uccise la democrazia nel nostro paese. Stavolta, con le stesse parole, può darsi che il presidente del consiglio che se la assume adesso ce la faccia a salvarla.
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