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Cristoforo Colombo: Il viaggio

La terra che un giorno sarebbe stata conosciuta con il nome America era già stata scoperta tante volte. Tutte le volte che più o meno ignari ma ardimentosi navigatori, da est o da ovest, dal Pacifico o dall’Atlantico si erano imbattuti nelle sue coste. Forse addirittura la prima scoperta era avvenuta a piedi, quando gli Inuit siberiani avevano attraversato lo stretto di Bering durante la tarda Era Glaciale ed erano dilagati nelle pianure degli odierni Canada e Stati Uniti. C’è un motivo se gli Indiani d’America assomigliano così tanto agli abitatori delle steppe mongole.

Da est sicuramente erano arrivati i Vichinghi di Erik il Rosso e del figlio Leif Erikson sui loro drakkar. Dall’Islanda erano saltati in Groenlandia, la leggendaria Thule, e da lì in Nordamerica. Gli insediamenti normanni trovati a Terranova parlano chiaro. La chiamarono Vinland, terra piatta. Le saghe di Vinland facevano parte del bagaglio culturale di quei marinai che, come il giovane Cristoforo Colombo, navigavano sulle rotte atlantiche sfidando ormai le Colonne d’Ercole. E non erano le sole, sulle mappe disegnate dai cartografi fiorentini o portoghesi comparivano isole strane, frutto di fantasia medioevale o forse dei viaggi avventurosi di qualche ignoto capitano che aveva messo la vela a occidente, dove la Chiesa aveva insegnato una volta per tutte che il Mondo terminava e l’Uomo non doveva andare.

Narravano antiche leggende che forse equipaggi europei si erano diretti a ovest prima e dopo i vichinghi. Il ritrovamento nelle navi greche e romane affondate nel Mediterraneo di sostanze sconosciute all’Europa prima di Colombo ha fatto addirittura pensare che l’Odissea di Ulisse possa non aver avuto luogo nel mare nostrum ma bensì nel Mar dei Caraibi. Si favoleggiava – tra le tante cose – che i Templari, prima della loro distruzione ai primi del Trecento, avessero costanti e frequenti rapporti con quello che sarebbe diventato un giorno il Nuovo Mondo. Finché uno di loro, Colombo appunto, decise di saltare il fosso, o per meglio dire le Colonne d’Ercole, e annunciare urbi et orbi quello che l’Ordine conosceva già, avendolo a sua volta appreso dagli antichi maestri greci ed egiziani.

Leggende che ad oggi non hanno conferma. Ma le mappe viste da Marco Polo in Cina invece erano chiare e certe. Al di là dell’estrema punta siberiana, davanti alle coste dell’Asia c’era una nuova terra che non poteva essere la lontana Europa. I calcoli di astronomi e cartografi lo escludevano, sulla base di quello che tutti ormai sapevano (anche se nessuno aveva il coraggio di affermare, pena la scomunica), che la Terra era tonda e circumnavigabile o verso est o verso ovest.

La grandezza di Cristoforo Colombo non sta in una scoperta che altri avevano fatto prima di lui. Quella è una presunzione della nostra visione eurocentrica della geografia e della storia, come se la nostra civiltà fosse stata la prima e l’unica degna di questo nome su questo pianeta. No, la grandezza del navigatore genovese sta nella intuizione e nel coraggio di seguirla. Buscar el levante por el ponente, questo fu il progetto che sottopose al Re ed alla Regina di Spagna. La ricchezza del Katai descritta da Marco Polo faceva gola alla giovane Spagna guerriera appena riunificata da Isabella e Ferdinando, ma pochi decenni prima i Turchi Ottomani avevano chiuso la via dell’oriente impadronendosi di Costantinopoli e dell’Asia Minore.

Colombo fu il primo ad avere il coraggio di proporre una via alternativa, facendo quel due più due che tanti avevano evitato per paura della Chiesa. E fu il primo a salire su una caravella e a salpare verso l’ignoto, perché oltre le Canarie e le Azzorre – al di là delle leggende non confermate – al suo tempo non era andato nessuno. Non per quella rotta almeno.

Il viaggio è la grandezza immortale di Cristoforo Colombo. Averlo iniziato ed averlo portato a termine. Con tre imbarcazioni che fino ad allora avevano navigato per lo più sotto costa, con un equipaggio di gente il cui coraggio combatteva quotidianamente con la superstizione. Inseguito dalle navi del re del Portogallo, che non aveva voluto dargli credito ma che adesso non voleva stare a guardare l’eventuale successo degli odiati cugini spagnoli.

Dalla partenza il 3 agosto 1492 da Palos all’arrivo alla Gomera, il porto di Gran Canaria, intercorsero sei giorni. Altri trenta la Nina, la Pinta e la Santa Maria ne trascorsero alla fonda, per fare provviste e riparare i danni subiti in quella prima parte dell’impresa.

La rotta verso l’ignoto prese il via il 6 settembre. Quasi 40 giorni di navigazione tra venti forti e bonacce, in un tratto di quel Mare Oceano che nessuno aveva mai mappato, almeno ufficialmente. I calcoli di Colombo si basavano sul viaggio di Marco Polo, tanto era stato percorso verso est, tanto doveva essere navigato verso ovest. Ma i giorni in mare trascorrevano lenti, le provviste scemavano, le creature dell’Oceano spaventavano la ciurma. Stanchezza e superstizione lavoravano ai fianchi l’equipaggio di Colombo, che ai primi di ottobre cominciò a dare segni di possibile rivolta. Verso il 10 del mese di ottobre le tre Caravelle erano prossime al punto di non ritorno, quello in cui le provviste non sarebbero bastate per fare il percorso indietro verso casa. Il Mar dei Sargassi aveva finito di impressionare le menti ardimentose ma poco istruite dei marinai castigliani.

All’Ammiraglio del Mare Oceano fu posto l’aut aut. O si avvistava la terra nel giro di pochi giorni, o si voltava la prua verso la Spagna. Colombo chiese tre giorni, e ricordò a tutti la promessa dei 5.000 maravedì stanziati dal Re per il marinaio che per primo avesse avvistato la terra delle Indie. Ogni grande impresa della storia ha sempre un momento in cui tutto sembra a rischio, e magari va in porto per un caso fortuito. Le navi di Colombo erano a un passo da quella terra, senza saperlo. Il mondo antico era a poche ore dal termine, l’era moderna stava per cominciare perché stavolta la “scoperta dell’America” avrebbe avuto risonanza e conseguenze clamorose.

L’ora fatidica scoccò alle due di notte del 12 ottobre 1492, quando dalla coffa della Santa Maria il marinaio Rodrigo De Triana lanciò il fatidico urlo: “Terra!”. Nel buio della notte atlantica aveva scorto le luci della costa dell’isola che gli indigeni locali avrebbero detto agli spagnoli chiamarsi Guanahani, dopo che per tutta la sera precedente diversi suoi compagni – compreso lo stesso Ammiraglio Colombo, che poi meschinamente tenne per sé la ricompensa reale – avevano creduto di scorgere qualcosa in lontananza.

Stavola non c’erano dubbi. Il viaggio era finito, le scialuppe presero terra sulla spiaggia di Guanahani, e l’Ammiraglio, secondo la patente ricevuta, ne prese possesso in nome delle Cattolicissime Maestà di Spagna ribattezzandola San Salvador in ringraziamento del buon esito dell’impresa.

Cosa successe dopo a Colombo, al Nuovo Mondo ed al Vecchio è storia nota. Le Indie Occidentali non erano l’avamposto della Cina, ma una terra che avrebbe preso il nome da un altro navigatore venuto dopo il grande Ammiraglio, il fiorentino Amerigo Vespucci. Al genovese la sorte avrebbe riservato più che altro rovesci, smentendo il detto che la fortuna aiuta gli audaci.

Eppure il viaggio resta, e resta il coraggio che esso richiese, fin dal momento in cui fu concepito, in un’epoca in cui parlare di navigare verso ovest poteva valere un processo davanti alla Inquisizione, fino al faccia a faccia con i marinai nella notte in mezzo all’Oceano, a poche miglia da Guanahani nascosta nel buio.

Resta il coraggio di Cristoforo Colombo, moderno Ulisse partito con ancor meno navi e certezze del Re di Itaca, e resta quel 12 ottobre 1492. Il giorno in cui la storia del Mondo cambiò per sempre.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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