Ernesto Guevara Lynch de la Serna detto el Che (soprannome che i sudamericani in genere danno agli argentini, prendendo in giro una tipica loro inflessione dialettale) era nato a Rosario, appunto, in Argentina, il 14 giugno 1928. La sua parabola leggendaria si era conclusa a La Higuera, Vallegrande, Santa Cruz, Bolivia il 9 ottobre 1967.
La sua vita la conoscono tutti. Tutti sanno il perché delle sue scelte. Tutti conoscono le cause della sua morte. Dai Diari della Motocicletta a quell’ultima spedizione in Bolivia in fuga dall’amico scomodo Fidel Castro e da una rivoluzione cubana che gli andava sempre più stretta, non c’é particolare ormai della sua epopea che non sia patrimonio di tutti, ammantato di storia o di leggenda a seconda delle inclinazioni e delle ideologie personali di ciascuno.
Il Che era soprattutto uno di quei personaggi romantici, da feuilleton d’avventura, che travalicano ben presto e di gran lunga i movimenti e le idee che li portano in auge. E’ stato per il Novecento quello che Giuseppe Garibaldi era stato per l’Ottocento, un condottiero che eccita la fantasia e il sentimento di un’opinione pubblica internazionale che spazia al di fuori del tempo e dei confini della classe o della nazionalità in nome di cui a suo tempo si è levato a difendere i diritti oppressi.
Garibaldi era stato l’Eroe dei Due Mondi, il leader delle nazionalità oppresse dagli Imperi ancien régime, il generale che traduceva in azione il pensiero di maestri come Giuseppe Mazzini. Che Guevara aveva a disposizione una copertura mediatica ed una platea di gran lunga superiore, e partendo dal marxismo finì per essere l’Eroe di Tutto il Mondo, anche e soprattutto di coloro che, per nascita o indole, con il marxismo non avevano nulla a che fare.
La sua ballata, Hasta siempre comandante, la cantano tutti ancor oggi, ricordando le parole a memoria. Così come cento anni prima tutti cantavano la Bandiera dei Tre Colori mentre il Generale Garibaldi sfidava le pallottole austriache ogni volta che la sorte glielo concedeva. Garibaldi aveva portato a termine la clamorosa impresa dei Mille (senza della quale l’unità d’Italia sarebbe rimasta un sogno rimandato a chissà quando). Che Guevara portò a termine con Fidel l’impresa della rivoluzione cubana, che in partenza sembrava ancora più disperata e utopistica di quella delle Camicie Rosse partite da Quarto verso Marsala.
Da Moncada all’Havana, il medico argentino, che da giovane – guarda caso – era stato un appassionato lettore di Emilio Salgari, Alexandre Dumas (già compagno d’avventure di Garibaldi), Miguel de Cervantes, consegnò se stesso ad una leggenda immortale. Destinata a sopravvivere alle idee che in partenza l’avevano ispirata e accesa, nonché al ricordo di tutte le altre figure con cui aveva percorso la sua strada, da una parte o dall’altra della barricata.
Come Garibaldi, Che Guevara era destinato a diventare ben presto scomodo, ingombrante per i suoi stessi compagni di lotta oltre che per i suoi nemici giurati. Che forse, in quei giorni che precedettero l’imboscata dell’esercito boliviano a La Higuera cinquant’anni fa, trovarono il modo di mettersi d’accordo. Impedendo a colui che aveva offuscato agli occhi del pueblo perfino il lider maximo Fidel di trovare una sua Caprera dove godersi – o subire – il buen retiro, o esilio, impostogli dalla nazione riconoscente.
Come quell’altro condottiero di cento anni prima, a conferma del fatto che il mondo ha periodicamente bisogno di simili personaggi romantici, salvo poi esser loro appunto riconoscenti togliendoseli di mezzo non appena diventano eroi.
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