Saigon 30 aprile 1975 – Kabul 15 agosto 2021
Niente di nuovo sul fronte occidentale. Li abbiamo lasciati soli un’altra volta.
Le notizie dall’Afghanistan irrompono sul pranzo di Ferragosto. L’Italia è assorta nella cottura dell’abbacchio alla scottadito, mentre a Kabul va in scena il dramma. Aeroporto isolato per via terra. Elicotteri americani fanno la spola tra l’ambasciata e l’aeroporto. Completamente evacuata l’ambasciata americana. Panico in città. La capitale è circondata. Ogni strada di accesso alla capitale afgana vede la presenza di check point talebani. Tutti i confini esterni sono controllati dai talebani. Erdogan ordina il ritiro di tutto il personale turco presente in Afghanistan, inclusi i 600 uomini di guardia all’aeroporto internazionale.
Toccò a Jimmy Carter la vergogna della fuga da Saigon, ma in realtà era stata preparata da almeno due amministrazioni precedenti, Nixon e Johnson.
A Joe Biden spetta concludere una vergogna preparata da Obama e da Trump, a cui peraltro lui ha aggiunto del suo. Così come ce l’hanno aggiunto gli europei, con le loro politiche e le loro missioni di pace da operetta.
I Talebani adesso hanno l’occasione storica di aggiornare i records dell’orrore dei Khmer Rossi di Pol Pot, che a loro volta avevano insidiato il precedente record di Hitler.
Ma a noi occidentali, che oggi festeggiamo la festa più attesa, va bene così. L’abbacchio è quasi cotto.
Buon Ferragosto.
Nelle ore in cui muore la libertà in Afghanistan, muore anche Gino Strada. Per gli afghani è come un segnale. Allah ha voltato la faccia al popolo che per tutti questi anni aveva confidato solo su due cose: la presenza occidentale armata e quella medica di Emergency. La prima si sta dissolvendo come neve al sole del Panjshir. La seconda dichiara che terrà duro, anche nel ricordo del fondatore.
Da tutto il mondo e da tutto l’Afghanistan messaggi di cordoglio per la scomparsa del medico di guerra italiano. Solo l’Italia, come suo solito, trova modo di dividersi su ciò che dovrebbe essere una sua orgogliosa eccellenza, prendendo a pretesto vecchie storie del ’68. Il maledetto ’68 che cinquant’anni dopo continua a sconvolgere le nostre menti di cittadini di un paese che non è mai diventato nazione.
La testimonianza della gratitudine degli afghani è un bell’epitaffio da mettere sulla tomba del nostro connazionale, che negli ultimi decenni aveva fatto, sì, polemica politica, ma soprattutto aveva curato a gratis tutti coloro che la medicina occidentale non considera più. Perché non hanno nemmeno i soldi per pagare un ticket, figuriamoci per una assicurazione medica.
«Il popolo dell’Afghanistan non ti dimenticherà mai.
Hai iniziato tutto questo e noi lo continueremo, seguendo il tuo esempio».
(Kabul, ospedale di Emergency)
Finite le esequie (o le contumelie) alla memoria di Gino Strada, la parola torna di nuovo alle mandibole, ma per la funzione primaria a cui assolvono in bocca agli italiani.
In questo momento di silenzio assordante, mentre le bocche sono impegnate a masticare abbacchio, sono soprattutto le donne, soprattutto quelle occidentali e di sinistra, a destare perplessità.
Mentre noi apparecchiamo la tavola e ci facciamo i selfies con le casseruole di pasta al forno, quelle afghane in questo momento vengono rinchiuse di nuovo in casa, a bastonate. Quelle fortunate. Sapete per esempio perché la Polizia Morale islamica stupra le ragazzine? Perché il Corano proibisce di mettere le mani addosso ad una vergine, fosse anche per motivi investigativi. Fu Khomeini a trovare la soluzione, i suoi nipotini sono quelli che stanno trattando la transizione del potere a Kabul in questo momento. Le ambasciate occidentali stavolta si sono premunite per tempo, chiudendo bottega in tempo utile a non avere rotture di coglioni, come a Saigon nel ’75.
E le donne? Burkha, se sono fortunate. E zitte. Secondo la sharia, il marito, il padre, il fratello maggiore da oggi possono di nuovo ammazzarle, il motivo non è necessario.
Non è la loro cultura, loro non sono abituate così, come sostiene qualche anima bella progressista che parla giusto perché ha l’aperitivo in mano.
Che i vostri nati torcano il collo da voi, e che vi vada di traverso l’abbacchio.
Così muore la libertà, tra i rutti della digestione.
Mi avessero detto che un giorno avrei provato disprezzo per la bandiera degli Stati Uniti d’America, non ci avrei mai creduto.
Ne provo tanto sicuramente per chi, di là e di qua dall’Atlantico, ha reso possibile lo scatto di questa foto. La foto simbolo di una nuova tragedia da cui forse stavolta nemmeno gli USA rialzeranno la testa. In quell’elicottero che decollava dal tetto dell’ambasciata di Saigon, nell’immagine dei diplomatici assediati da Khomeini a Teheran, c’era comunque qualcosa di dignitoso, anche nella sconfitta. In questa foto no. C’è solo la resa, ignominiosa, da parte di un paese che per generazioni aveva alimentato i sogni di libertà di un intero pianeta.
Questi due esseri inguardabili che calpestano la Stelle e Strisce suonano la campana per loro, i bovari dello Iowa e del Texas che si credevano intelligenti a votare per Joe Biden e Kamala Harris, pensando di risparmiare sulle tasse e di potersene fottere di nuovo del mondo che consuma il loro latte. Black lives matter, Lgbt matter, la prima donna presidente USA (non votata, but….doesn’t matter…), queste sono le cose importanti. Chissà se i vaccari dell’Unione, ed i loro figli tornati dal Medio Oriente con una gamba sola o su una carrozzina saranno contenti di veder trattare così la loro bandiera…..
Ma la campana suona anche per noi europei, i politically correct della storia contemporanea. I debosciati che credevano di portare all’infinito il giochino secondo cui gli americani ci difendevano e noi in cambio li offendevamo e rompevamo loro i coglioni a gratis. Siamo morti che camminano, e con la caduta di Kabul la frontiera con i cannibali che ci mangeranno è assai più vicina.
È una vita che passo davanti al cimitero di guerra americano sulla Firenze-Siena, e mi si stringe ogni volta il cuore. A quelle povere croci bianche, a quella povera bandiera davanti a cui veniva quasi di mettersi sugli attenti per gratitudine, chi spiegherà adesso che razza di impresentabili vigliacchi in fuga disordinata si sono rivelati oggi i loro nipoti e bisnipoti?
Chi mostrerà, pur con vergogna, la foto infame di questa feccia subumana che calpesta sogghignando la loro, la NOSTRA bandiera?
«We will never be a pawn in someone else’s game. We will always be Afghanistan.»
Ahmad Shah Massud, il Leone del Panjshir, comandante dei Mujaheddin dell’Alleanza del Nord afghana.
«Tornerò»
(gen. Douglas McArthur, Corregidor, Filippine, 12 marzo 1942).
Abbiamo contratto un debito storico e morale con l’Afghanistan. E voglio pensare che prima o poi glielo ripagheremo. Se non con questa generazione di esseri senza testa e senza cuore, con la prossima che avrà ritrovato – a sue e nostre spese – un po’di spina dorsale e di dignità. Quando finalmente lgbt, #blacklivesmatter e pari opportunità per donne che non ne meriterebbero neanche una (al pari di tanti uomini) torneranno ad essere passatempi intellettuali da apericene radical chic e cesseranno di essere priorità nelle agende dei nostri governanti.
Torneremo a Kabul, come abbiamo promesso ai nostri fratelli afghani. Dobbiamo tornarci. Fino ad allora, che Dio (comunque lo si chiami) li protegga.
«Se l’America non ci aiuta, questi terroristi verranno presto a fare del male a lei ed all’occidente»
(Ahmad Shah Massud, comandante mujaheddin, discorso agli Stati Uniti d’America, 2001)
Quando il governo democratico Kharzaj chiese a tutti i gruppi combattenti di riconsegnare le armi (com’era stato chiesto ai nostri partigiani nel 1945), i Mujaheddin depositarono soltanto quelle obsolete o non più funzionanti. Sapevano, in cuor loro, che degli occidentali non c’è da fidarsi più di tanto. E che questo giorno di Ferragosto dell’anno di disgrazia 2021 prima o poi sarebbe arrivato. L’Alleanza del Nord torna al nord, nelle sue montagne, a riprendere una guerra plurisecolare, cominciata il giorno che Alessandro Magno si affacciò sulla valle del Panjshir e proseguita contro tutti gli eserciti di tutti gli imperi. Che contro i Mujaheddin hanno sempre perso, ultima in ordine di tempo l’Armata Rossa. Lo sa perfino Sleepy Joe, e forse è per questo che lui e chi l’ha votato credevano di potersene tirare fuori lasciando l’Afghanistan alle sue lotte tribali. Senza pensare che i Talebani non sono una tribù, ma incarnano piuttosto la versione più assassina di una religione che comunque non prevede la convivenza con nessun’altra, dal giorno che fu fondata dal suo profeta.
«Gli Stati Uniti fanno sempre la cosa giusta, dopo avere esaurito tutte le alternative»
(Winston Churchill)
E noi? Noi siamo qui a digerire l’abbacchio, ed a pensare di cavarcela con qualche battuta sagace da postare su Facebook. Intanto sui social network imperversa la versione dei fatti talebana, mentre l’ex presidente americano Trump è stato oscurato per sempre.
Nel 1938 la resa dell’Occidente a Hitler ebbe luogo a Monaco di Baviera. Nel 2020, la resa ai nazisti musulmani è avvenuta a Doha. Ed entrambe le volte abbiamo creduto, furbi come siamo, di avere assicurato la pace al nostro tempo. A spese altrui, ovviamente.
Combatteremo la Terza Guerra Mondiale. E lo faremo come sempre da posizione di svantaggio.
ULTIM’ORA: Il Washington Post riferisce che uno degli aerei militari decollati dall’aeroporto di Kabul non è riuscito a caricare il carrello. Così sono stati dirottati e i piloti hanno effettuato un atterraggio di emergenza in un paese terzo e hanno scoperto resti umani nella ruota.
Una volta il Washington Post tirava giù i presidenti americani, adesso contribuisce a farli eleggere (o per meglio dire: dichiarare eletti). Poche ore fa qualcuno definiva fortunati coloro tra gli afghani che erano riusciti a trovare posto su velivoli dell’USAAF.
Forse, come tanti pregiudizi, è il caso adesso di rivedere anche quello.
#shameonJoeBiden
#shameontheUnitedStatesofAmerica
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