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Donne

Le donne operaie di New York

Siamo online da più di dieci anni e, a modo nostro, non abbiamo mai saltato un appuntamento con la Festa della Donna. Esordimmo raccontandovi delle donne afghane, la nuova frontiera del femminismo. Bellissimi volti di ragazze sorridenti non più nascosti dai burkha, anche se ancora delimitati da quel costume tradizionale islamico che sembra – ed è – concepito per negare la femminilità. Ragazze che sorridevano perché i cooperanti di Emergency stavano lì davanti a loro ad insegnare loro un mestiere moderno, l’infermiera, l’ostetrica, il medico. Un mestiere che avrebbe fatto la differenza, allorché l’età della pietra dei Talebani sembrava essere stata ricacciata indietro nel Medioevo.

L’anno dopo fu la volta delle donne di Kobane. Bellissimi volti di ragazze, secondo qualunque standard culturale, a cui l’abbigliamento mimetico militare donava qualcosa in più – in termini di forza, di dignità, di consapevolezza di sé – senza nulla togliere alla femminilità. Era il periodo tragico della resistenza curda ad una Isis che l’Occidente aveva sottovalutato se non addirittura alimentato. Per i curdi, ma soprattutto per le loro donne, si trattava di libertà o morte. Terza alternativa non c’era, eppure loro sorridevano agli obbiettivi dei fotografi, le uniche risorse che l’Occidente mandava in loro soccorso.

Poi fu la volta delle Suffragette, bellissimi volti di donne occidentali vestite ancora secondo la moda della Belle Epoque ma con in faccia i tratti di una determinazione che poco aveva a che vedere con i canoni estetici della moda parigina o con leggi che ancora negavano alle femmine della specie umana la capacità di intendere e di volere, se non addirittura il possesso dell’anima. E quei cartelli che stringevano in pugno toglievano ogni dubbio, riportando parole che erano schiaffi in faccia ad un genere maschile e ad istituzioni che si definivano liberali e per quel liberalismo combattevano addirittura guerre mondiali.

Poi arrivò il tempo degli scioperi, e del femminismo radical chic. Cominciava la crociata del #metoo, tradotta qui da noi con #nonunadimeno. Le donne occidentali, dimenticando come sempre la solidarietà con chi più ad est continuava a vedersela con problemi ben più seri rischiando castighi ben più letali, si impegnavano nella crociata contro le molestie sessuali. Che sono sempre sgradevoli, o peggio, ma che nel caso specifico facevano parte di un pacchetto in cui – absit iniuria verbis – agli oneri corrispondevano onori non da poco. Come disse Claudia Cardinale, nel cinema certi comportamenti ci sono sempre stati, e le donne ci sono sempre passate attraverso per fare carriera, una splendida carriera da lì in poi. Nessun dottore l’ha ordinato, nessuna donna ha avuto in sorte la morte per fame in alternativa al letto di Weinstein. Bastava ricondurre la questione alle sue giuste proporzioni, perseguire il cialtrone vestito da produttore o da regista e finirla lì, senza spacciare il tutto per la nuova frontiera del femminismo e Asia Argento per Giovanna d’Arco.

Quell’anno non mettemmo foto particolarmente emblematiche, non ne esistono di Lisistrata, la donna ateniese che risolse la Guerra del Peloponneso lanciando il celebre sciopero del sesso. Quella sì una geniale e ben condotta crociata femminista. Del dito medio di Asia Argento o della faccia distorta dal fanatismo di Laura Boldrini preferiamo al contrario fare a meno.

L’anno dopo ancora optammo per una mimosa, che per quanto scontata e abusata è pur sempre a nostro giudizio più graziosa a vedersi della signora Cirinnà testimonial delle più boldriniane e inconsistenti delle battaglie o della signora Giulia Pacilli, che rinverdì la tradizione stilnovista con il suo celeberrimo meglio buonista e puttana che fascista e salviniana.

Era tempo di ripensare un po’ a tutta la questione della Festa della Donna e del femminismo, vero o di facciata che sia. Di rivolgersi soprattutto a quelle donne – la maggior parte – che qualunque cosa facciano non hanno voglia di essere accostate a delle puttane (con rispetto parlando per il mestiere più antico del mondo, ognuno fa di sé e del suo corpo quello che crede, finché non danneggia altri).

L’anno scorso mettemmo dunque la foto a nostro giudizio più sexy del nostro archivio. Le donne operaie di New York che consumano il loro pasto di mezzogiorno a cavalcioni di una traversina sospesa nel vuoto, una foto simbolica che significativamente duplica quella analoga maschile (Lunch atop a skyscraper, New York Herald Tribune, 1932) scattata per celebrare sia il movimento operaio che l’epopea dei primi grattacieli.

Quelle donne sono estremamente sexy, a nostro parere, come quelle di Kobane, quelle del Panjshir, quelle di una Washington in bianco e nero lontana nel tempo. Sono sexy perché indossano la stessa tuta da operaie dei loro compagni maschi, e la sera – c’è da giurarci – tornano a casa con le stesse mani sporche di grasso da macchina o di fuliggine, le unghie rotte, gli stessi capelli scarmigliati e le stesse occhiaie da mancanza di riposo. Eppure riescono ad essere donne anche in quel caso, a portare se stesse per il mondo con la stessa femminilità e dignità che se fossero vestite da Coco Chanel. Malgrado abbiano svolto per tutta una interminabile giornata lo stesso ingrato lavoro da fame dei loro compagni maschi.

Il femminismo era questo, e dovrebbe ritornare ad esserlo. Essere donne non perché si assomiglia e ci si omologa sempre più ai compagni maschi. Ma perché si cerca di essere uguali a loro soltanto nella sostanza, nel bene e nel male, nei diritti e nei doveri. Le donne delle nostre foto dall’Afghanistan a Manhattan, non hanno lo smalto alle unghie delle dita, ma non hanno in testa neanche di diventare un giorno come il padrone che le ha costrette a vivere così. Che comunque è sempre meglio che vivere chiuse in casa, aspettando il ritorno di un maschio che una sera ti grugnisce un abbozzo di saluto, una sera ti dà un ceffone, una sera non ti guarda nemmeno.

Le definimmo donne di frontiera, perché la nuova emergenza pandemica le chiamava una volta di più a fare qualcosa di più. Come fanno da sempre del resto. La giornata del maschio finisce al suo rientro in casa. La giornata della femmina comincia allora, e tutto quello che ha fatto fino a quel momento per sbarcare il lunario non conta.

Pochi, semplici concetti. Ma se le donne vogliono continuare a potersi sentire donne, anche con le unghie rotte e le dita sporche o i capelli che gridano aspettando lo shampoo che ancora non arriva, sarà bene che si riguardino queste foto, o altre del genere. Assomigliare ad un uomo che non sa che farsene di te come del resto di se stesso non è un traguardo. Né lo è quel dito medio sollevato da una donna che ha avuto la fortuna di vivere in un film, invece che nella propria vita normale come tutte le altre.

Agli uomini, un concetto ancora più semplice: le nostre compagne stasera non si aspettano una mimosa. Si aspettano altro. Con buona pace dei fiorai.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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